Per farvi capire come sono cambiati i tempi bisogna che vi spieghi com’era fatto l’appartamento in cui sono cresciuta. All’altezza delle scuole medie, mi venne concesso l’usufrutto delle stanze della servitù. Non è la triste storia di Candy adottata dai ricchi per far loro da cameriera: è che in quel palazzo rinascimentale c’era, sopra la cucina, una camera, alla quale si arrivava da una scala a chiocciola nell’ingresso di servizio. Oltre che d’un bagno, la camera era dotata d’uno sgabuzzino che venne ristrutturato trasformandolo in cabina-armadio (all’epoca si diceva «come in Via col vento», non «come in Sex and the city»). Perdipiù, i miei genitori tenevano a non avere scocciature più che a qualunque principio educativo, e quindi in camera mia era stata installata una linea telefonica indipendente, così non dovevano mai dirmi di riattaccare ché gli serviva il telefono.

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Dan Kenyon//Getty Images

Mettete una sedicenne degli anni 80 in una situazione d’apparente autonomia, e quella si convincerà di poter fare tutto. Quindi, il giorno in cui papà e mamma mi comunicarono d’avere separati impegni per cena, io mi accordai con un’amica per far venire da me i due tizi che ci piacevano. Due periferici il cui gruppetto si riuniva in centro proprio sotto casa mia, due che fosse stato per la nostra vita da liceo privato non avremmo mai incontrato, tutt’un brivido della trasgressione. Concordammo, addirittura, come ci saremmo spartite il territorio: una sarebbe rimasta col suo in camera, l’altra coppia si sarebbe chiusa nell’armadio. Se Rossella O’Hara avesse immaginato.

Quel che non avevo calcolato è che i miei, pur non avendo alcuna intenzione d’educarmi, si trastullassero origliando le mie telefonate da sotto la scala a chiocciola. Quel che non avevo calcolato era l’impossibilità di accorgersi se qualcuno rientrava in casa dall’ingresso principale, duecento metri più in là di quello sopra al quale abitavo io. Quel che non avevo calcolato era l’eccezione: la sera in cui mio padre decise di giocare all’educatore.

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Laurence Dutton//Getty Images

Quando sentimmo «Lo so che siete lì, scendete», i due tapini, già inibiti dal trovarsi in una casa coi soffitti affrescati, erano molto più terrorizzati di noi. Ad affrontare il disastro fummo io e quello che piaceva alla mia amica: lei e il mio ganzo erano rimasti più indietro, sulla scala a chiocciola. Lo spettacolo offertoci dalla cucina era mio padre, calmissimo, appoggiato al tavolo di marmo, sopra al quale stava la pistola che nessuno ha mai capito cos’avesse comprato a fare (forse in previsione di quella serata, forse troppi film americani). Gliela indicò, e gli disse: «Se ci riprovi te la scarico in testa». I due tapini furono fatti velocemente uscire.

Per settimane fu una storia di cui ridevamo moltissimo, vessando il tapino che, scoprimmo, aveva raccontato «Mi ha puntato la pistola alla testa». Il padre l’aveva terrorizzato, la figlia gli dava del mitomane. Succedesse oggi, la madre del tapino griderebbe al bullismo, i giornali racconterebbero il lato dark della borghesia bolognese che tiene sotto minaccia armata i visitatori dalle periferie, e io venderei i diritti della mia adolescenza traumatica per una miniserie. Allora, invece, per il resto del liceo bastava che ci dicessimo «L’armadio» per ridere come scimunite per interi minuti. Erano tempi peggiori?