Da dove vieni tu, migrante con le treccine alle spalle e le pantofole ai piedi? Hai la faccia bella da rapper americano o da modello underground. Di quelli che tanto piacciono alle griffe patinate per essere moderne e acchiappa-millennial. Potresti avere un account Instagram e milioni di follower. Potresti sfoggiare un nome cool come Drake e una tuta di raso lucido con le ciabatte a righe da piscina, che un tempo sembravano da nerd o da svitato e invece ora sono stilosissime. Ma le tue sono proprio ciabatte vere, blu di velluto con un bordino di pelo bianco, come il cappello di Babbo Natale.


Chissà da dove le hai cacciate fuori quelle ciabatte da nonna, che con i jeans corti strappati e le treccine alle spalle non c’entrano niente. A meno che non passi uno stilista e decida che, sì, mancava proprio una cosa così sciccosamente granny per la sua prossima collezione. Ma ci siamo solo tu ed io su questa strada, alle 8 di mattina. Io che corro e tu che stai. Io che mi giro due volte a guardarti perché sei proprio bello, e mi sento pure un po’ colpevole a guardare uno che potrebb’essere mio figlio (tra cinque o sei anni però), e tu che mi guardi perché nessuno ti guarda di solito, anzi evita proprio di incrociare il tuo sguardo, che poi gli tocca tirar fuori gli spiccioli, e non li ha più per il giornale e il caffè.

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Deve avertele date la Caritas quelle ciabatte lì. O il centro di via Corelli dove dormi la notte. Anche io una volta ho portato cinque sacchi pieni di scarpe e vestiti laggiù, sentendomi Madre Teresa. Solo perché avevo fatto lo sforzo di svuotare l’armadio e fare consegna a domicilio in quel posto dove tengono gli “sfollati” come te, lontano dalla vita delle gente perbene, in mezzo al niente. Chissà che fine hanno fatto le tue scarpe, se sono finite in mare. Mi chiedo spesso perché le scarpe si perdono sempre nelle tragedie. Rimangono sull’asfalto dopo un incidente. Galleggiano sull’acqua. Tacciono scomposte accanto al letto, orfane, quando qualcuno se ne va.

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Le hai scelte tu? Te le hanno date? E come ti ci senti? Bisogna essere molto disperati o molto autoironici per indossarle come fosse niente. Tu devi essere di quelli disperati, e le ciabatte sono il male minore. Chettifrega di cosa porti ai piedi se della vita non ti resta niente. A parte la vita certo, che è la cosa che conta e che potevi perdere in mille modi diversi per arrivare fin qua. Fuori da questo bar. A incrociare il mio sguardo. A fare passare le ore, aspettando di tirar su due soldi mentre il caldo ti uccide. Uccide noi, non te, che sei già stato ucciso molte volte, sopravvivendo a tutto: le onde, il deserto, gli addii, l’ignoto, l’odio degli uomini, quelli che ti hanno spinto nel barcone e quelli che ti hanno tratto in salvo, ma solo perché dovevano e adesso brigano per rimandarti indietro.

Altrove la tua avventura farebbe di te un eroe. Le traversate, per terra e per mare, nel nostro mondo sono sempre epiche. Ma tu sei solo un profugo, uno dei tanti, e della tua storia non c’interessa niente. Sei un numero, una faccia scura, un clandestino, un problema. Se fossi nato a Harlem magari oggi avresti la tua etichetta discografica, le bio di insospettabili parabole dal ghetto al Superbowl piacciono molto al pubblico wasp. Se fossi nato in Francia faresti l’attore come Omar Sy. Se fossi nato a Londra magari lavoreresti nella City. Se fossi nato a Roma... Ma tanto sei nato da qualche parte in Africa e fai il migrante, dunque il giochino finisce qua. Tanta fatica per arrivare solo alla casella di partenza. Questo bar di Milano, in piena estate, mentre la gente parte per il mare, aspettando di avere una tua identità: un documento, un progetto, una storia. Un posto dove andare e cominciare. In pantofole. È proprio un fetente il dio del destino.

Scrivete a Maria Elena Viola, direttore di Gioia!: direttoregioia@hearst.it