Provate a ricordare lo strazio dei vostri figli al debutto nel nido nell’attimo in cui, a inserimento esaurito, vi vedono fare ciao-ciao con la mano e allontanarvi colpevoli in retro. Ripensate al distacco bagnato di lacrime e moccio la volta che tornano a scuola dopo sei giorni di beata influenza. Il pianto che buca le orecchie durante un attacco di otite, il gemito sommesso e stranito dei primi giorni di febbre, il guaito a sirena della sera in cui, dopo mesi (o anni) di incondizionata presenza, avete deciso di uscire: le manine che si attaccano alla camicia stirata, le gambe bloccate sulla via della porta. E voi che pensate mi fermo, non vado, non posso lasciarlo da solo, è piccolo, piange, ha ancora bisogno di me. Prendete le sue lacrime e impastatele con 100 grammi del vostro dolore, un pizzico di lievito madre e aspettate: quando quell’amalgama sarà cresciuto di almeno dieci volte, che dico, mille, un miliardo o forse più, avrete l’idea della fitta atroce che si deve provare, da qualche parte nel cuore, quando vi strappano i figli dall’abbraccio che li trattiene e protegge, dall’intreccio di mani sudate, come non fossero più roba vostra, per portarli chissà dove, senza sapere né come né quando potrete riaverli. Né se.

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La separazione forzata delle famiglie di migranti clandestini al confine col Messico ha sconvolto il mondo. L’audio delle voci disperate dei bambini, che supplicavano di essere ricongiunti con le madri, i padri, gli zii almeno, mentre uomini che biascicavano parole in inglese mettevano in pratica l’odioso mandato di Trump, ha avuto sulle nostre coscienze un impatto persino più forte di certe immagini di piccoli innocenti martoriati dalla guerra, dalla fame, dalla fuga disperata in mare. È la storia “sonora”, come un libro in cd, che ci scuote e ci sveglia dal nostro torpore, dal letargo emotivo di robe già viste e già lette, di orrori già masticati, di disperazioni che arrivano ormai ai nostri occhi coi colori sbiaditi di un vecchio film, così consumato da evocare emozioni troppo logore e fiacche per farci indignare. Invece quelle voci sono come uno schiaffo. Sono le voci dei nostri bambini, di tutti i bambini del mondo, finiti schiacciati dai giochi dei grandi. Rinchiusi come pulcini in batteria in un posto che credevamo inventato apposta per i western, El Paso, e che invece esiste davvero.

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Dopo l’accusa di disumanità che gli è piovuta addosso come un uragano, Trump ha deciso di fare marcia indietro. Aveva contro tutti: la moglie, gli amici, i nemici, il papa, l’Onu, persino la gente per strada, persino i teenager di solito poco partecipi alle cose del mondo. «Hai visto mamma che ha fatto quel tizio in America?», chiedeva allibita una fanciulla in shorts incrociata sabato in centro. «È un mostro». Il mostro ha promesso, con un nuovo decreto, di non dividere più le famiglie. Ma per il resto procede spedito: restano intatte l’idea del Muro, la tolleranza zero, «la fine della pacchia» per tutti quei Dreamers che pensavano di averla fatta franca con le leggi di Obama. Però non rivela che fine faranno i 2.300 minori strappati alle famiglie arrestati finora. E le altre migliaia che arrivano da soli e senza documenti, raccolti nei centri d’accoglienza dai militari mandati dal Pentagono.

Tra loro potrebbero esserci i nuovi talenti della Silicon Valley, registi, cantanti, attori, camerieri, medici, tate, badanti. Futuri qualcosa che chiedono solo un’opportunità, in quella terra promessa che un tempo era un modello di democrazia e integrazione e oggi solo un brutto esempio di protezionismo muscolare che gioca con la paura della gente. In questa epoca di grandi esodi, varrebbe la pena ricordare che siamo tutti popoli in viaggio, mossi dal sogno di una vita migliore. Non è combattendo i migranti che si risolvono i flussi migratori, ma combattendo le condizioni che costringono a scappare, sanando le disuguaglianze che sempre spostano masse umane da aree disgraziate a latitudini con prospettive più rosee. Il pianto di un bambino è uguale dappertutto, e merita attenzione. Lo meritano pure i suoi sogni. Anche se non si vedono, e non fanno rumore.

Scrivete a Maria Elena Viola, direttore di Gioia!: direttoregioia@hearst.it