«In una stanza piena di gente con la giacca nera, tu sei quella con la giacca gialla». Così mi disse un giorno un collega più anziano, al quale confidavo il senso di inadeguatezza che sempre mi prendeva nelle riunioni tra “capi”. Dimostrare meno anni e avere un’aria affabile non è un buon atout in ambienti in cui l’autorevolezza si misura in vantaggio anagrafico, giusto cipiglio e scarpe firmate. Per molto tempo mi sono sentita la stagista imbranata imbucata al meeting del consiglio d’amministrazione, pur avendo conquistato il mio ruolo (giovane direttore di prima nomina: giovane per gli standard italiani), con indefesso lavoro e irreprensibile stacanovismo. Eppure davanti ai colleghi di lungo corso mi facevo piccina picciò, risvegliando la nerd coi codini sbilenchi e i calzini spaiati che da sempre abita in me.

Finché non c’è stata la rivelazione: io sono quella con la giacca gialla. L’elemento di disturbo in un sistema in divisa. Il soldatino che marcia al contrario. Non so se fosse un complimento, ma credo di sì. Di sicuro mi ha aperto un mondo. Trasformando ciò che consideravo un limite, in plus. E facendomi capire che portare la giacca gialla, in fondo, mi è sempre piaciuto. Essere quella che si tagliava i capelli corti quando le altre li portavano al sedere, indossare camicie grunge mentre tutte s’infiocchettavano con colletti di pizzo e bluse color caramella, innamorarsi del più brutto di Fame. Così, per principio. Solo per essere “diversa”. Facile dirlo quando la diversità la cerchi e la guidi a tuo piacimento, costruendola su piccole cose di poco conto. Più difficile quando sono gli altri che la scelgono per te, e ti bollano come “lo strano” da tenere a distanza.

Il diverso fa paura. O pena. O rabbia. O fastidio. Perché ci destabilizza. Ci costringe a uscire dalle nostre cucce comode, dai pensieri prefabbricati, dalle immagini rassicuranti passate al photoshop. Il nero. Il giallo. Il rifugiato. Il gay. Il povero. Il ciccione. Il disabile. Il brutto. Lo sfigato. Buh! Tutto quello che non conosciamo, che è altro da noi, ci fa sentire in pericolo. È lo scarto delle nostre certezze, il cono d’ombra in cui non entriamo. Per questo passiamo la vita a omologarci. Gli stessi vestiti, le stesse facce coi nasi all'insù, gli stessi corpi atletici, le stesse opinioni. Essere uguali agli altri ci dà l’illusione di essere più forti, più giusti, migliori.

Ma è anche la nostra condanna. Perché sforzarci di essere ciò che non siamo è una straordinaria perdita di tempo. La diversità non va temuta, ma difesa, nutrita, allenata, enfatizzata, accudita. Anche se a volte ci fa sentire soli e sbagliati. Come si fa a spiegare a un ragazzino che viene bullizzato per il suo aspetto, la sua stravaganza, la sua fragilità che è il più fico di tutti? Che è il pezzo sartoriale in un magazzino di capi fotocopia? Forse insegnandogli a usare il suo “essere speciale” come un superpotere contro i prepotenti. Scommettiamo che vince?

Diversità aperturapinterest
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La diversità spiazza e conquista. La diversità è cool. Per questo lo Smart issue di quest’anno, cioè il numero 24 di Gioia! in edicola, è dedicato proprio alla diversity. Declinata in tutte le sue forme. Diversità rispetto ai canoni estetici che ci inchiodano a modelli stereotipati e irraggiungibili, facendoci sempre sentire inadeguati (ma per fortuna qualcosa sta cambiando: basta guardare le ultime sfilate). Diversità come pluralità di facce, colori, lingue, credo, culture. Diversità come emotività e intuizione, e fantasia, cioè la complessità del fattore umano contro l’algoritmo delle macchine. Diversità come capacità di uscire dai binari e andare dove ci pare, anche se tutti i cartelli indicano un’unica direzione, seguendo solo la voce del cuore. Diversità come libertà di essere ciò che siamo e amare chi vogliamo. Diversità come apertura e inclusione contro i muri e le frontiere. Un mondo che accetta la diversità è un mondo più interessante. Di sicuro più felice.

Scrivete a Maria Elena Viola, direttore di Gioia!: direttoregioia@hearst.it