Quand'è che capisci che non ce la fai più? Che non basta una riga di matita e un bel rossetto rosso, un nuovo eccitante progetto o un nuovo batticuore, per scacciare il male di vivere che ti si posa addosso come la cenere di un’esplosione? Puoi fare finta che tutto vada bene per mesi o per anni, ricacciando dentro quel bolo di ansia e di apatia che ogni tanto scalpita e scalcia, come un gatto selvatico chiuso in un sacco da buttare a mare. Puoi fare credere che sia un’altra persona, non tu, a trascinarsi la vita appresso come una iattura, continuando ad essere quello che non sei, la bella copia che gli altri si aspettano da te. Ma prima o poi la bestia prende il sopravvento e ti divora, stringendo tra le fauci quel battito lieve che ancora ti tiene legato al mondo, il cuore piccolo di un uccellino, fragile mucchio d’ossa contro la forza devastatrice delle zanne.
Essere condannati a vivere, invece che a morire. Costringersi ogni mattina ad alzarsi, lavarsi, vestirsi, vedere gente, dare la migliore versione di sé, quando si ha voglia solo di rintanarsi dentro un letto e scomparire. Cadere giù. O essere altrove, dove chi sei non si misura in base alla performance. E ridere, sorridere, “essere sul pezzo”, sempre, mentre quell’ospite che ti abita dentro fa razzia di te. Ti occupa e ti affonda con passo marziale e scarpe chiodate. Finché un giorno decidi che magari basta, che quella recita non ti va più. Troppa fatica. E la fai finita. Sapendo che poi diranno non me l’aspettavo, sembrava sereno, risolto, contento, sembrava la persona che avrei voluto essere io. Perché morire quando hai tutto? Morire per scelta. Perché?
Chiudere la vita, volontariamente, quando di solito si fa di tutto per tenerla aperta, il più a lungo possibile, ricacciando il pensiero della fine, combattendo con ogni mezzo la minaccia della malattia, la sua dittatura sul nostro corpo quando arriva, o la mannaia dell’imprevisto che tronca tutto in un secondo, illudendoci da sempre e con ipocrito candore di essere immortali, è una cosa che mi ha sempre tolto il respiro. Preferire non esserci che esserci. Sfidando l’ignoto su quel che c’è dopo – semmai ci fosse, e dove, e come – il peso dell’assenza che continuerà a gravare su chi ci ha amati, il senso di colpa per chi resta. Ci vuole molto coraggio. O molta stanchezza. Una stanchezza così densa, che solo un sonno senza risveglio può curare. Chiudere gli occhi e non pensare al dopo: al risveglio impastato dalle medicine, alla vita che torna. Essere liberi.
Di questa stanchezza credo soffrisse Kate Spade, stilista newyorkese che non ha retto all’abbandono del marito e a quel copione da Wonder Woman vincente e spensierata che non contemplava psicofarmaci e cadute. Essere sempre al centro della festa alla lunga strema. Ma ammetterlo non è una cosa facile. E ancora più difficile sedersi nel backstage mentre là fuori il pubblico t’invoca e chiede e pretende da te sempre di più. Era depressa, ma non voleva saperne di curarsi. La depressione è una brutta cosa quando viene lasciata a piede libero. Nei giorni in cui i giornali parlavano di Kate, un’altra giovane donna si è tolta la vita, Inés Zorreguieta, sorella minore della regina d’Olanda, da tempo in lotta con l’anoressia. E poco prima ci aveva lasciato senza fiato la morte improvvisa di Alessandra Appiano, “amica di salvataggio” dal sorriso aperto, che mai avremmo pensato incagliata dentro un tormento senza soluzione.
Poi, il colpo di scena, Anthony Bourdain. Bello, ricco, famoso, innamorato, celebrity chef lo chiamavano i giornali. Tutti morti suicidi, in pochi giorni. Come se il gesto di uno avesse dato coraggio a tutti gli altri. Come se vivere fosse diventata soltanto una delle possibilità, e non necessariamente la migliore.
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