Da quando l’età mi ha allentato quasi tutti i freni inibitori, soprattutto quelli che presiedono allo svuotamento delle sacche lacrimali, mi capita di piangere copiosamente e di frequente. Ci vuole davvero niente per commuovermi, come se si fossero create parti molli sopra la buccia del mio pericardio, simili alle ammaccature di una mela rotolata a terra. Se ci appoggi il dito, uuuh, che turbamento, piango.
Dunque, quando quest’anno sono andata a vedere Lady Bird, delizioso piccolo film di Greta Gerwig, che racconta il rapporto difficile tra una figlia dai capelli fucsia e una madre rognosetta che non le fa passare niente, su una scena in particolare ho dato il meglio di me. La scena del camerino. Le due sono in un negozio di vestiti alla ricerca di un abito per il Prom, il ballo di fine ciclo scolastico. La ragazza prova cose e soppesa incerta, con testa inclinata e mani che stendono pieghe, la resa davanti allo specchio. Mentre la madre, dietro, osserva e giudica. Non servono commenti, gli occhi dicono tutto. E quasi mai è qualcosa di buono. «Perché non puoi dirmi che mi sta bene? Io voglio piacerti», sbotta Lady Bird nel suo vestitino di tulle «troppo rosa». «Lo sai che ti voglio bene», ribatte la madre fuori tema, scambiando per fame d’amore la ben più smodata fame d’approvazione. Pausa densa. «Ma io TI PIACCIO?», insiste la fanciulla scarmigliata. «Voglio che tu sia al meglio di ciò che puoi essere…», balbetta, improvvisando, la genitrice imbarazzata, gettando renella su quella voragine che sempre si crea quando lo sguardo non corrisponde ai facili refrain consolatori. «E se fosse questa la versione migliore di me?».
Qui le mie parti molli hanno mandato il segnale all’ipotalamo e ho iniziato a scrosciare. Punta nel vivo nel duplice ruolo di figlia e di madre. Perché questo è il punto: non basta essere amati, si vuole piacere a chi ci ha generati, nel bene e nel male, qualsiasi cosa siamo. Su questo si fonda non solo l’immagine che abbiamo di noi stesse, ma la percezione di quanto valiamo, quanto meritiamo, cosa possiamo aspirare a diventare. Per noi ragazze della mia generazione non è stato facile smarcarsi dall’occhio amorevole e spietato delle mamme, forse più sollecite e presenti di quanto siamo noi, madri part time, ma meno attrezzate a crescere future donne desiderose di mangiarsi il mondo. Ancora oggi, che siamo più che adulte e vaccinate, stiamo lì a prendercela a morte quando ci dicono che siamo sciupate o stanche o ingrassate o malvestite, insomma un po’ da buttar via, con quella tipica ferocia materna edulcorata dalla nonchalance e dalla scusa delle buone intenzioni: «Ma su non prendertela, lo dico per te, perché ti voglio bene». Grazie, mamma.
Ma queste erano le nostre di madri, ingombranti e digiune di pedagogia. Noi no, noi la lezione l’abbiamo imparata e con le eredi non replicheremo. Le nostre figlie le faremo sentire belle, forti, vincenti – qualsiasi cosa facciano, anche se non ci piace – umili ma assertive, determinate ma non odiose, corazzate e degne di qualsiasi missione, focalizzate sull’obiettivo e certe che si può andare lontano se si tolgono le zavorre del pregiudizio, dei commenti gratuiti che ti tirano in basso, delle aspettative altrui che ti confondono, degli stereotipi che costruiscono gabbie, degli automatismi di genere che ti inchiodano a ruoli subalterni o ti spingono all’autosabotaggio pur sapendo che meriti di più. Ragazze che si piacciono. Come Meghan Markle, la miglior testimonial che ci potesse capitare per aprire il numero 20 di Gioia! ora in edicola dedicato alla bellezza. La bellezza di chi arriva dove vuole.
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