Jamila è nata in Italia, ha 13 anni, parla milanese. Quest’anno ha l’esame di terza media, deve studiare, ma non le piace. Però le piace andare a scuola, perché può stare con le sue amiche. Parlano di ragazzi, si scrivono cose sceme sul diario, a volte si fermano in piazzetta a fare i musical.ly. Poi torna casa e non le passa più. Mangia, fa un po’ di compiti, quando la mamma le dà il telefono si mette a guardare i video su YouTube o a spiare le vite lievi delle sue compagne su Instagram. Lei il pomeriggio non fa nessuna attività, niente tennis né hip hop, non va a studiare a casa delle altre, non esce se la chiamano. A volte viene a trovarla sua cugina e se ne stanno a chiacchierare in cortile. Sennò resta a casa e litiga con suo fratello. Si crede di poter fare quello che vuole solo perché è più grande e il papà non gli dice niente, ma lei non ci sta a farsi comandare, se la mamma non sente, gli dice le parolacce finché non sta zitto e sbatte la porta della sua cameretta.
Sabato, che non c’è scuola, deve andare al corso di arabo. Vorrebbe dormire e invece le tocca svegliarsi presto e imparare quella lingua difficile che parla fitto fitto sua madre quando viene a casa la zia. A Jamila non frega niente di imparare l’arabo, perché tanto non ci vuole andare nel Paese dei suoi genitori, né in vacanza né a vivere. Soprattutto a vivere. Lei è italiana. Di Milano. Anche se non riesce a fare quasi niente di quello che fanno le italiane coi genitori italiani e i nonni e gli zii e i fratelli italiani. A parte lasciarsi crescere i capelli lunghi e indossare le Stan Smith. Solo un sabato è riuscita a stare con le sue amiche e a saltare arabo, perché c’era la maratona e sua mamma si è messa la pettorina pure lei e l’ha accompagnata con altre mamme. È la più giovane e la più bella di tutte sua madre. Ma ha il velo, e questa cosa la fa vergognare.
Jamila si vergogna anche quando qualche sua amica viene a casa − quasi mai − perché il padre sta zitto e non saluta. Non può mai invitare nessuna a cena, o a dormire, lui non vuole. E guai a disubbidire al papà. Jamila è italiana, ma si sente diversa e il suo essere diversa le pesa, perché sa che non potrà fare quello che fanno le altre. Andare alle feste, baciare un ragazzo, mettere un vestitino scollato e il gloss. Le ragazze nel Paese dei suoi genitori indossano il velo e non si baciano per strada e anche se quel Paese è a migliaia di chilometri i suoi si comportano come se abitassero là. Forse anche lei tra qualche anno dovrà coprire i lunghi capelli che sanno di shampoo alla mela, una volta la mamma le ha detto qualcosa al riguardo, ma lei ha chiuso la porta e non ha voluto sentire più.
Jamila è una bambina che conosco. È forte, ribelle e spericolata. Ogni volta che le parlo mi fa venire voglia di caricarla in macchina e portarla al mare o in un prato a correre forte per liberare tutta quell’energia intrappolata nel suo corpo o in un negozio di vestiti per riempirla di magliettine e di shorts. Ha solo 13 anni e già lo sguardo di chi si sente prigioniera. Negli anni dal nido al liceo ho avuto modo di conoscere tante compagne delle mie figlie con famiglie di immigrati di prima e seconda generazione. Alcune sono perfettamente integrate, legate alle loro tradizioni ma con uno stile di vita “occidentale”. Altre sono chiuse nelle loro comunità, evitano le occasioni d’incontro, non si mischiano, lasciando i loro ragazzi in bilico tra due culture, sospesi in un limbo che li fa sentire stranieri nella terra in cui sono nati.
Alcuni di loro, crescendo, si affrancano da questo giogo e scelgono cosa essere: figli del Paese dei loro padri o di quello che li ha ospitati, condizionandone gusti, abitudini, ambizioni. Ogni scelta è buona, purché fatta senza costrizioni. Ci sono ragazze musulmane che decidono di indossare il velo in segno di rispetto per le proprie origini. Ce ne sono altre che non ne vogliono sapere né del hijab né del Corano né di tutte le tradizioni di un posto lontano di cui hanno solo sentito parlare. Queste ragazze andrebbero lasciate libere. Rispettate. Non derise. Non costrette a fare ciò che non vogliono. Non picchiate. Non uccise. Gli occhi neri di Sana, 25enne pakistana cresciuta a Brescia, e strangolata dal padre per aver rifiutato un matrimonio combinato, mi ricordano quelli di Jamila. Ridenti e indisciplinati. Affamati di vita. Una vita senza catene.
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