La serata più faticosa del 2018 è cominciata senza avvisare, quando a una cena fin lì tranquilla sono arrivati due amici che erano andati al cinema a vedere Tonya. Ci siamo messi a commentare la colonna sonora, purissimi anni Novanta, tranne quell’Umberto Tozzi del ’79 che stava già in uno dei più gran film di questo secolo, The wolf of Wall Street. Neanche il tizio che sparò all’arciduca senza immaginare che ne sarebbe scaturita la prima guerra mondiale era inconsapevole quanto me quando, con la serenità di chi sta rimarcando un’ovvietà, ho detto: «Beh, d’altra parte è la più bella canzone italiana di tutti i tempi, Gloria».

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Prendete l’accalorarsi delle femmine sui vestiti; aggiungeteci l’accalorarsi dei maschi sul calcio; moltiplicate il tutto per un milione, e otterrete quanto gli esseri umani s’accalorino sulle canzonette. Ho tentato di sedare la rissa tra spingitori di canzoni preferite allargando il podio: allora facciamo le prime tre (tra le prime tre almeno m’includeranno Gloria, diamine); non avevo tenuto conto che, come per tutto il resto, era questione di tifoseria. Io amavo Miuccia Prada persino quando faceva i tacchi a cono, il tizio di fronte era capace di parlare per sette ore di non so che rigore non dato alla sua squadra, quello a capotavola non avrebbe votato un certo partito neanche se avesse fatto le leggi più convenienti per lui, la mia vicina di posto era pronta ad arringhe shakespeariane pur di convincerci a includere tra le migliori tre una qualunque canzonetta di De Gregori. Tutti tifosi. Vociavano come stessero in televisione, e non riuscivo a spiegar loro che era proprio con la politica dei grandi autori che ci s’impantanava: scegliere una canzone di Umberto Tozzi è facile, ma vi voglio vedere a sceglierne una sola di Lucio Dalla. A tal proposito, ho detto in un attimo di silenzio, il verso «sono ancora impantanato con te» potrebbe piazzare tra le mie prime tre Un’altra te. Osservando come mi guardavano per aver proposto Ramazzotti, non ho osato dire la verità: se il criterio è la nostra formazione sentimentale, io devo far posto a un Venditti. Ho vilmente taciuto: ci sono madeleine che non si possono ammettere, se si vuol restare socialmente presentabili.

Però poi un’intellettuale che credevo ascoltasse solo Paolo Conte ha affermato perentoria che tra le sue prime tre c’era il più didascalicamente sentimentale dei Baglioni, Solo, e allora ho capito che non solo era un gioco impossibile, ma che quella di cui stavamo dibattendo non era una playlist: era una macchia di Rorschach, e a tavola non c’erano psicologi per interpretare le risposte. Finché uno ha detto Se telefonando, e io mi sono ricordata d’essere stata secoli fa così giovane da concedere l’accesso alle mie mutande a un tizio solo perché esso aveva troncato un dibattito sui programmi di Maurizio Costanzo dicendo che non si poteva criticare chi aveva scritto un verso come «Lo stupore della notte affacciata sul mar ci sorprese che eravamo sconosciuti». Stavo per cominciare a struggermi sulle mie giovani mutande, quando qualcuno ha buttato lì che la più bella canzone italiana di tutti i tempi era L’estate sta finendo, e allora abbiamo fatto quel che fanno gli adulti quando la crisi è davvero seria: abbiamo fatto finta d’aver fin lì scherzato, e siamo andati a dormire.