La prima volta in cui incontrai Nora Ephron le feci mille domande sul suo primo libro, Affari di cuore: il romanzo attraverso il quale aveva raccontato le sue corna e il suo divorzio. Lei mi spiegò che all’epoca la società letteraria rispettabile era indignata con lei: aveva osato raccontare i fatti suoi e farne pure un bestseller; secondo lei in parte lo scandalo era dovuto all’essere una donna: Philip Roth parla solo delle sue fidanzate e nessuno fa una piega, mi disse. Riportai la frase in un articolo, e ricevetti messaggi indignati per mesi: coloro che prendono molto sul serio il proprio ruolo di lettori di libri pensano che «parla delle sue fidanzate» sia una frase offensiva. Come se un certo Marcel Proust non avesse fatto la storia della letteratura parlando delle sue merendine.

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Nora Ephron.

Ci ripensavo mentre leggevo Storia della mia ansia, il romanzo in cui Daria Bignardi ha, come Nora Ephron, cambiato i nomi; se sei una donna (e oltretutto vieni dalla televisione: le aggravanti s’accumulano), la società letteraria non ti prenderà mai sul serio se t’azzardi a fare quel che fanno senza chiedere permesso Carrère o Knausgård: dire «io»; devi dire «il mio personaggio». Come se, nel momento in cui scrivo «io» dentro un oggetto che poi verrà messo in vendita, potessi intendere davvero «io»; se qualcuno gli avesse chiesto quanto fosse autobiografica la sua vita, scrive Safran Foer in Eccomi, «avrebbe detto: “È la mia vita, ma non sono io”». È il suo personaggio, cioè è lui, cioè è la versione di sé che ha deciso di pubblicare.

L’altro giorno buttavo giornali vecchi e ho trovato un numero del New Yorker del 1998. C’era un articolo che demoliva la decisione della vedova di Hemingway di far pubblicare quel che il marito aveva lasciato d’inedito. È uno dei maggiori incubi che chiunque scriva possa immaginare: muori prima d’essere riuscito a cancellare tutti i file dal computer, qualcuno ti rimaneggia la punteggiatura, ti taglia dei brani come ritiene avresti fatto tu se quella non fosse stata una bozza ma un’opera compiuta, e pubblica il tutto a tuo nome. (Una volta ho lasciato un tizio perché si piazzava alle mie spalle a guardare mentre scrivevo, a spiare oscenamente frasi che non avevano ancora la forma che volevo dar loro: per dire quanto sono tollerante su questo tema).

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Daria Bignardi.

Vent’anni fa, sul New Yorker già si piangeva «la crescente incapacità di comprendere una finzione letteraria, di non scambiarla per un romanzo a chiave o per grezzo materiale autobiografico». Quindi non è cominciata coi reality o coi social. Quindi eravamo già pettegoli prima («Tutta la letteratura è pettegolezzo», diceva Truman Capote col tono che ci si permette quando l’oggetto dei pettegolezzi sono gli altri). Eravamo già tutti pettegoli, anche quelli che hanno stima del loro ruolo di lettori, e ti costringono a cambiare nome per raccontare d’aver avuto un cancro, perché quella malattia di cui volevi fare letteratura non diventi invece tabloid.

Solo che non basta, se – aveva come sempre ragione Ephron – sei una femmina. Philip Roth cambia i nomi e nessuno gli chiede se davvero, come il suo personaggio, si sia fatto venire un infarto pur di non prendere i betabloccanti che lo rendevano impotente; Daria Bignardi cambia i nomi e vorresti comunque chiederle: ma veramente tuo marito è così stronzo?