Ho sempre sognato di avere una sorella. Per rubarle i vestiti, chiederle consigli, stare alzata con lei fino a tardi a parlare di ragazzi e ridere senza motivo. Invece ho avuto un fratello. Un fratello maggiore che da piccola idolatravo come una rockstar. Perché era molto bello e molto rispettato tra i gruppi di coetanei, oggi si direbbe “popolare”, e godere della luce riflessa derivante dall’essergli incredibilmente consanguinea mi faceva sentire una privilegiata. Una che, pur non essendo bionda e slanciata, con gambe affusolate e capelli splendenti, cioè esattamente il genere di tipa che lui frequentava, aveva comunque diritto al saluto da parte dei fichi in motorino che bivaccavano fuori dalla scuola malgrado il look e le amicizie nerd. Tutti i fratelli minori hanno nei confronti dei maggiori un sorta di ammirato e servile rispetto. Come se il fatto di essere venuti al mondo dopo li renda meno imprescindibili, quasi superflui per mamma e papà, che hanno già appagato l’istinto procreativo. Grati di esserci benché non necessari.

Il dovere dei fratelli maggiori, che siano maschi o femmine, è comandare. Aprire varchi e rivendicare diritti negli statuti genitoriali. Dare il buon esempio. Quello dei fratelli minori è ubbidire, seguire il buon esempio e poi, crescendo, smarcarsi il più possibile e diventare autonomi. Mio fratello si divertiva a esercitare il suo potere da monarca assoluto mettendo alla prova la mia ingenuità: la volta che testò la lama di un coltellino sulla mia coscia – funzionava – , la volta che mi legò alle ginocchia un cordino con delle miccette e disse «Apri!» trasformandomi in ordigno esplosivo, la volta che mi fece credere che gli orecchioni mi avrebbero dato orecchie da lupo facendomi piangere tutta la notte. Come tutti i tiranni sapeva anche essere buono e protettivo, a volte. I sudditi sono più disposti all’ubbidienza cieca se il capo elargisce a campione briciole di umanità. Crescendo, la fede nella sua natura divina è andata piano piano sgretolandosi, insieme all’assioma dell’infallibilità genitoriale e all’esistenza di Babbo Natale. Finito il fanatismo è subentrato l’amore, montato con lentezza come una marea, dentro quel letto di sassi e argilla che sempre occorre mettere tra la famiglia e noi quando si cerca di diventare grandi. Ci sono stati anni di distanza e indifferenza, anni in cui il suo essere fico e il mio essere brava non erano più il codice di lettura della nostre rispettive storie, il guscio con cui presentarsi al mondo. Bisognava inventarsi nuove password per trovare spazi, consensi, identità non più basate sulla contrapposizione. Bisognava diventare “singolari”.

Tutte le storie familiari sono storie di lotta e di sudore, per affermarsi e segnare perimetri. Storie di resistenza, conflitto, guerra psicologica, egoismi travestiti da tenerezza e sensi di colpa appuntiti come pietre. L’amore non è mai pulito. L’ho capito con evidenza il giorno che stoicamente ho partorito mia figlia senza il soccorso dell’epidurale, maledicendo la notte del concepimento e immaginandola farsi strada dentro di me, nella mia carne, per cercare la luce. Ognuna indaffarata a schivare il dolore e preservare la sua sopravvivenza. Unite dallo stesso evento eppure per lunghi attimi nemiche: perché mi stai facendo questo? Tornatene da dove sei venuta. Sparisci. Ma dopo, che meraviglia tenerla stretta tra le braccia, ancora insozzata di sangue e di vita. Sarà per questo che sono allergica a tutte le storie che escludono il lato sporco dell’amore. Le fiabe edulcorate che vogliono illuderci della bontà intrinseca dei sentimenti. I sentimenti sono anche cattivi, vili, imperfetti. Come lo siamo noi. Nel numero in edicola questa settimana abbiamo parlato di relazioni. Relazioni difficili: quella d’ammirazione-competizione tra sorelle; quella tra un terapeuta e la sua paziente, al momento del distacco; quella tra una figlia e una mamma che non sa vivere per lei. Manca la più tradizionale delle relazioni, quella tra un uomo e una donna. Per quella vi rimando all’ultimo libro di Cristina Comencini (Da soli, ed. Einaudi): «Anche nelle coppie più riuscite, più apparentemente solidali, può scoppiare la lotta. Una lotta sotterranea che magari non si è mai rivelata. Da un lato c’è la curiosità e la voglia di conoscersi e darsi fino in fondo, e dall’altro c’è il terrore di soccombere». L’amore è questa cosa qui. Sennò, si chiama soap opera.

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