Eutanasia su un minore. È accaduto in Belgio, nella regione delle Fiandre. Poco si sa, come sempre in questi casi. Ma l'età del malato terminale la conosciamo: 17 anni e una malattia letale, causa di sofferenze insopportabili. Alla fine i genitori, su richiesta del figlio, hanno deciso di interromperle. 

In Italia prevalgono i commenti negativi. La Chiesa parla di «licenza di uccidere». C'è chi evoca il nazismo, chi orrende ragioni funzionali ed economiche: uccidere per liberare posti letto, tagliare costi sociali come le onerose cure palliative. Ancora una volta, attorno ai temi bioetici emergono scontri ideologici e toni da crociata. Eppure, davanti a una madre e un padre che decidono di assecondare il desiderio di morte di un figlio, servirebbe innanzitutto il rispetto. 

Come si può immaginare che questa volontà sia condizionata da questioni economiche? Chi può intromettersi in una vicenda così privata e dolorosa? Il ragazzo aveva 17 anni.
I medici e gli psicologi che assistono i minori ammalati di tumori incurabili ci dicono che i piccoli nella sofferenza estrema raggiungono più rapidamente la maturazione, la capacità di riflettere sulla propria condizione. C'è quindi un ragazzo che il dolore ha reso adulto e che soffre terribilmente senza speranza di guarigione. Ha deciso che vuole morire e lo ha spiegato chiaramente ai suoi genitori. I quali, attuando la sua volontà, lo hanno protetto e amato fino in fondo. 

L'eutanasia è consentita, in forme diverse, in molti Stati europei e americani. Mai sotto i 12 anni di età. In Italia è vietata in ogni forma, in nome di un'ambigua, malcelata etica di Stato. Davanti alla morte di questo ragazzo ognuno cercherà le sue risposte. Io sto con il Belgio, che tratta i suoi ragazzi da uomini liberi. E fa un passo indietro, riconoscendo ai genitori il diritto a quest'ultimo, dolorosissimo gesto di pietà.