Una volta Simone de Beauvoir, all'insinuazione che scrivesse libri perché non era riuscita ad avere figli, rispose con un'ovvietà: non sarà che fate dei figli perché non siete capaci di scriver dei libri? Altre volte condannò l'ideologia della maternità (leggete Il secondo sesso: sembra scritto domani), o teorizzò che i figli si facciano per sentirsi meno sole. Simone de Beauvoir è morta nel 1986: ha quindi vissuto in quel lussuoso secolo in cui, se un'intellettuale diceva qualcosa sul mondo, poi al massimo doveva risponderne ad altri intellettuali, non a chiunque si annoi in ufficio e si metta a scrivere i propri pensierini su Facebook.

Marina Abramovic ha 68 anni e, in un'intervista a un giornale tedesco, ha detto di aver abortito tre volte e che l'arte è una questione totalizzante e (sintesi mia) non ti lascia tempo né voglia di cambiare pannolini. Apriti cielo. Tra rivendicazioni della creatività delle madri (se sapessero che Marina non considera i loro pensierini su Facebook da Nobel per la letteratura, ne morirebbero), e accuse di esibizionismo (siamo sempre lì: se hai abortito devi tacere, se hai esercitato un diritto è tuo dovere vergognartene), l'utero di Abramovic è stato al centro del dibattito delle ultime settimane.

Intanto in Provenza, ad Arles, l'artista spagnola Laia Abril espone un lavoro intitolato Sull'aborto(fino al 25 settembre 2016). È una storia fotografica dell'aborto clandestino, nei luoghi e nei tempi in cui quel diritto non era (non è) ancora un diritto. Intanto in Italia si discute del nostro dovere, prima di avvalerci d'un diritto, di parlare con un obiettore: uno che obietta al nostro diritto. Se non temessi il dibattito coi pensierini su Facebook, direi che viviamo in una strana epoca: quella in cui nessuno ti dice che la tua sensibilità è un problema tuo. E invece, che tu sia obiettore o titolare di una connessione wifi, se le mie scelte riproduttive offendono la tua sensibilità la risposta è solo una: pazienza.