È una delle artiste più affascinanti e singolari dell’arte contemporanea e le sale americane hanno già ospitato il primo documentario sulla sua vita: stiamo parlando di Yayoi Kusama, la regina dei pois.

“Infinity” – questo il titolo del film, prodotto da Magnolia e diretto da Heather Lenz – celebra i settant’anni di lavoro dell’artista giapponese, che nel 2019 spegnerà 90 candeline. Premiato allo scorso Sundance Film Festival, il documentario va a ritroso negli anni, quando una giovane Kusama, artista ancora sconosciuta, si affacciava con fatica nel panorama dell’arte newyorkese – un mondo dominato principalmente da uomini. Da quel momento in poi, la strada è sempre stata in salita, fino al raggiungimento in anni recenti di un’incredibile notorietà che l’ha portata a essere una delle artiste più quotate al mondo. Una fama travolgente, certo, ma anche una vita complessa e insolita, dato che Kusama vive da oltre quarant’anni in un istituto per malattie mentali.

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Chi è Yayoi Kusama? Figlia di mercanti, Yayoi comincia a fare arte fin da piccola: scrive poesie, dipinge, ma allo stesso tempo sperimenta le prime allucinazioni e i primi traumi che si originano nell’ambiente familiare: racconta infatti che sua madre la obbligava a spiare suo padre con le sue amanti, causando in lei una vera e propria ossessione per il sesso che ricorre in tutta la sua produzione artistica. Conoscere la sua vita è fondamentale per “entrare” nell’arte di Yayoi Kusama, ed è questo ciò che cerca di fare “Infinity”: tracciare un ritratto dell’artista partendo dalla sua infanzia, dai primi riferimenti visivi che hanno contribuito a costruire quell'immaginario fatto di pois colorati, ripetuti all’infinito come in un’allucinazione. E poi il trasferimento dell’artista in una New York dove erano gli uomini protagonisti assoluti, una tenacia nel fare arte controcorrente, andando contro tutte le mode del momento. In un periodo in cui gli artisti restavano fedeli alla pittura (erano gli anni dell’Espressionismo Astratto), Kusama travolgeva tutti con le sue performance, con la nudità dei corpi su cui dipingeva i pois, le sue sculture morbide, gli specchi.

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Negli anni Settanta, depressa e scoraggiata, tenta più volte il suicidio, prima di ritornare in Giappone e auto-recludersi in una clinica per malattie mentali. Bisognerà aspettare la fine degli anni Ottanta per vederla finalmente (e giustamente) celebrata in una retrospettiva al Center for International Contemporary Arts di New York e poi a rappresentare il Giappone alla Biennale di Venezia del 1992. Da quel momento, si inaugura una nuova fase nella carriera di Kusama, ed è tutta un’esplosione di mostre in musei e gallerie prestigiose, popolarità e quotazioni vertiginose. “Io adoro tutto ciò che ho fatto” ha dichiarato l’artista più volte. La strada per il successo può essere lunga e difficile, ma il genio alla fine viene sempre riconosciuto e celebrato.