Questo è un esperimento. Prima di mettermi a scrivere, ho detto alle mie due figlie – età media: sei anni – che fino all'ora di cena non avrebbero dovuto disturbarmi per nessuna ragione meno grave di "si è incendiata mia sorella".

Hanno fatto di sì con la testa – «Tanto dobbiamo fare i braccialetti con gli elastici» – e ho chiuso la porta del mio studio.

Toc toc. 

È Quella Grande.

«Scusa mamma, ma non ti possiamo disturbare perché devi scrivere?».

«Sì».

«E di che cosa devi scrivere?».

«Di quanto sia fastidioso venire interrotta di continuo».

«Per questo ci hai chiesto di non interromperti?»

«Già».

Secondo Jennifer Senior, autrice di Tanta gioia nessun piacere, quando le mamme non si divertono (Rizzoli), e soprattutto secondo l'impressionante quantità di studi e ricerche citate a supporto della tesi, essere genitori non è per niente piacevole. Anzi: è per lo più uno sfinimento.

Prima di tutto fisico, come dimostrano le trecento volte in cui mi sono chinata oggi per raccogliere un elastico – càpita anche a casa vostra? Anellini di plastica dappertutto, uncinetti di ogni dimensione, tutorial su YouTube che insegnano a intrecciare repliche da comodino della torre Eiffel. Si fanno chiamarerubber bands.

E sì: è innanzitutto colpa mia, cheli ho comprati. Ma non c'era alternativa. Quando lo scorso agosto Quella Piccola è stata ricoverata per qualche giorno in ospedale, ho dovuto trovare un gioco tranquillo per ingannare il tempo. E distrarre il pensiero – soprattutto: il mio – dal viaggio annullato.

Avere figli non è divertente, no. Soprattutto quando si ammalano in vacanza.

Toc toc.

È Quella Piccola.

«Ciao mamma, mi ha detto Quella Grande che scrivi di noi».

«Sì, più o meno».

«Ricordati che adesso io mi chiamo Clara».

«Perché Clara?».

«Perché il nome che hai scelto tu mi faceva schifo».

«Non dovevi fare i braccialetti?».

E poi è un perenne crepacuore. Come essere innamorata del più mascalzone del liceo, ma per vent'anni di seguito. All'inizio è trasporto dei sensi: nasi che si annusano, corpi che si toccano, ragadi sanguinolente sui capezzoli. E lo sguardo languido di chi dorme solo i giorni dispari.

In ogni caso: niente in confronto allo struggimento dell'età prescolare. La prima volta che ho litigato con la mia prima figlia poi sono uscita a cena, e ho passato la serata ad aspettare che mi telefonasse. Aveva tre anni, e ho richiamato io: così è iniziata la nostra relazione disfunzionale.

Da allora, ogni conversazione segna il territorio. Il suo, che tutte le sere guadagna minuti di tv prima di dormire, e può usare il mio telefono per chiacchierare su Whatsapp. Il mio, che mi sono stancata di rimanere senza telefono, e a Natale gliene regalo uno tutto suo – così impara.

Poi c'è l'adolescenza, e il fisiologico sviluppo di tirannia sentimentale. Quando l'improvvisa spilungona parla, ma non dice niente. Sta zitta, ma perché è successo un qualunque irreparabile. Devo capire, dispormi ad accogliere, incassare rifiuti con grazia. La mia collezione di uomini stronzi, vista da qui, sembra poco più di un blando allenamento.

Toc toc.

Sono tutt'e due.

«Mamma abbiamo fame».

«Mamma abbiamo sete».

«Chiedete a papà».

Essere in due aiuta. Non è una difesa della famiglia tradizionale: è arte della guerra. Le battaglie più importanti si vincono per accerchiamento, con strategie concertate nello sguardo al di sopra del tavolo della cena. Per questo, probabilmente, le battaglie più importanti le abbiamo perse tutte.

Il tavolo della cena è una puntata di Servizio pubblicopermanente: nessuno riesce a finire un discorso. Mai. Se Daniela Santanchè mangiasse con noi, sbuccerebbe la frutta ammutolita. In due – meglio sarebbe: in otto, beati i poligami – è anche più facile gestire l'agenda.

Perché un figlio ti cambia: ho visto campionesse di aperitivo diventare preparatrici atletiche di pallavoliste nane, cubiste non più favolose tenere il tempo a violoncellisti striduli, integraliste della bici comprare Suv per i tornei di judo fuori porta. E tutto nello stesso pomeriggio.

«Mamma?».

«Si bussa».

«Toc toc. Mi sono stancata di fare i braccialetti».

«Smetti».

«E se poi viene il fantasma disfatutto?».

Non c'è mai tregua. Non al telefono: per mettermi in pari con la vita delle mie amiche devo farmi chiudere fuori dal balcone, pure quando piove.

Non in bagno: quando erano piccole abbiamo tolto le chiavi, e adesso ogni seduta è un collettivo di autocoscienza.

Non di notte: prima piangevano loro perché avevano fame ogni tre ore, poi piangerò io perché "non sono ancora rientrate e sono le tre".

Nel frattempo: anni di risvegli sporadici, ma concepiti per risultare il più possibile irritanti. Mai in contemporanea, e mai abbastanza distanziati da consentire un sonno qualsivoglia. Sempre la notte prima di una riunione decisiva, o in case di vacanza impossibili da percorrere a memoria. Tutti che si concludono nella stessa maniera: con un mattoncino Lego conficcato nella pianta del piede, e irripetibilità strillate a notte alta.

«Mamma! Una cosa terribile!».

«Si è incendiata tua sorella?».

«Non trovo più i guanti di Elsa».

«È una tua amica?»

«Elsa. Di. Frozen».

«Nome. E. Cognome».

«Dàiii. I guanti!».

«Dove li hai lasciati l'ultima volta?».

«Dove mi hai detto tu: nel posto degli accessori».

«E allora saranno lì».

«Sì, ma qual era il posto degli accessori?».

Non è vero che non ci si diverte, e lo sa anche Jennifer Senior. Ci si diverte spesso, ma per brevi istanti: bisogna riuscire ad accorgersene. Avere figli non ha niente a che vedere con i princìpi di maternità mistica: l'istinto infallibile, la gioia trasfigurante – per carità. Ma non è neanche un'operazione militare per corpi speciali.

«Mamma?».

È più noioso. È un incastro di decisioni difficili, colazioni rovesciate, vestiti nuovi e soliti dispetti.

«Mamma?».

Un groviglio di attenzioni e svogliatezza, orgoglio e desolazione.

«Mamma?».

È come tutte le storie d'amore: sfiancante. E indispensabile.

«Mamma, hai finito?».

«Sì, metti in ordine che ceniamo».

«Sto facendo un braccialetto, adesso. Non mi interrompere».