Sono mamme super, ma si sentono invisibili. Forti ed efficienti, generose e accoglienti, solcano giornate di 27 ore e ciclopiche fatiche, ma alla sera si addormentano con il gusto amaro di un grazie non ricevuto. La chiamano sindrome del supergenitore, malattia conclamata di questo terzo millennio che colpisce madri e padri troppo solerti, troppo devoti, troppo concentrati su quei pochi, e perciò preziosi, figli. Così i pedagogisti descrivono i genitori che ne diventano vittime, sin dalle prime battute di vita dei loro bambini.

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Poche settimane fa, sull’autorevole rivista americana Psycology Today, la docente universitaria Suzanne Degges-White ne tracciava il ritratto, invitando i lettori a scoprire se anche loro fossero caduti nella trappola del super genitore. «A poche settimane dalla nascita di vostro figlio», chiede, «vi sentivate in colpa se dovevate restare una o due ore lontano da lui? Vostro figlio piangeva e voi vi sentivate inadeguate se non riuscivate a fermarne il pianto? Per caso, vivevate le decisioni sull’accudimento con apprensione (allattamento al seno oppure biberon, co-sleeping oppure bimbo rigorosamente nel suo lettino eccetera...) come se fare una scelta piuttosto che l’altra potesse determinare negativamente il futuro di vostro figlio? Sono tre espressioni tipiche di over-parenting allo stato germinale», spiega la docente. «Ovvero di quell’eccesso di preoccupazioni che si trasforma in sovraccudimento, niente affatto positivo per i genitori, e neanche per i loro figli. E che, paradossalmente, non si stempera con la loro crescita».

Se il controllo è eccessivo

Secondo i pedagogisti, i genitori con la sindrome dell’eccesso di cura sono in aumento. «È che a un certo punto madri e padri si sono messi in testa che i propri figli avessero il diritto alla felicità assoluta. E hanno cominciato a sentirsene responsabili. È la prima volta nella storia del genere umano che accade una cosa simile», spiega Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e autore di Il metodo famiglia felice (De Agostini), saggio scritto con la moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista. «Così si sono trasformati in quelli che io chiamo genitori-spazzaneve, ovvero genitori sempre in allerta o in azione per prevenire qualunque possibile infelicità dei figli, a partire dalle piccole insoddisfazioni. Un compito gravosissimo, una fatica immane e che, soprattutto, non trova mai fine. Perché inseguendo la felicità si aumentano all’infinito le cose di cui preoccuparsi». Da qui, dunque, la pervasiva sensazione di non fare mai abbastanza, il senso di colpa di non esserci a sufficienza, la percezione della mancanza come perdurante condizione dell’essere genitori.

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«Basterebbe ricordare la lezione che continua a darci il pensiero del grande pediatra e psicanalista Donald Winnicott, quando sosteneva che non si deve cercare di essere genitori perfetti, ma genitori sufficientemente buoni», aggiunge Pellai. Certo, individuare il discrimine esatto tra fare troppo e fare quanto basta è complicato, ma il pragmatismo della professoressa Degges-White soccorre con una metafora curiosa e illuminante: «Si tratta di abbassare le nostre aspettative di una tacca o due. Come? C’è una regola per fare la valigia delle vacanze, che è: infilaci dentro tutte le cose che ti viene di metterci, quindi tirane fuori la metà. Ecco, questo è quanto ti sarà sufficiente in vacanza. Con i figli bisogna fare lo stesso». Abbassando di una tacca o due le aspettative che nutriamo verso noi stesse e verso i figli, verrà anche più facile allentare la presa, sentirsi meno ansiose e sfinite e, probabilmente, capire che tutto quel darsi da fare non si trasforma automaticamente in ricompensa d’amore e rispetto, figuriamoci se in gratitudine!

«Molti di questi genitori vanno in tilt nella fase di preadolescenza dei figli, quando i ragazzi si tengono ben alla larga dal ringraziare e, anzi, sembrano programmati per negare il valore di quanto facciano padri e madri», dice Pellai. «In questi casi, io consiglio ai genitori di non farsi prendere dalla frustrazione e, piuttosto, guardare da fuori con obiettività e distacco la delusione propria e la ribellione dei figli, i quali non è che non ci vedono o non vedono i nostri sforzi, ma hanno l’urgenza di diventare indipendenti da noi, a maggior ragione se rappresentiamo una presenza troppo forte nelle loro vite». Ciò non toglie che l’immane lavoro disbrigato da ogni madre (insieme alla cura della casa è stato recentemente quantificato economicamente, e vale 3.045 euro netti mensili) abbia un valore educativo, affettivo ed emotivo unico.

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Katie Emslie / Unsplash.com

«Quello che conta non è l’enormità di quanto le donne fanno, ma il fatto che – e lo dicono le mie ricerche – le madri non si sentano considerate», scrive sempre su Psycology Today la psicoterapeuta Nancy Colier. «Come terapeuta, sento sempre più mamme esprimere il bisogno che la propria fatica venga apprezzata e riconosciuta da parte di figli e compagni». La Colier non ha dubbi sulla strategia per ottenerlo: chiederlo! Anche per la pedagogista Barbara Tamborini serve una mossa di rottura: «Riconoscere il valore e mostrare apprezzamento è un elemento della dimensione affettiva tra genitori e figli che deve essere assolutamente alimentata. Fa parte di quell’accudimento verso le persone più prossime che dovremmo insegnare ai nostri figli e su cui, invece, spesso soprassediamo, perché magari vediamo che non ne hanno voglia. Imporre loro questa dimensione, forzarli ad appassionarsi anche quando non la sentono, guidarli a guardare con attenzione a ciò che danno per scontato, anche se a loro costa impegno, è nostro compito. E saperlo ci mette nelle condizioni migliori per chiederglielo.

Capire e affrontare la situazione

Ai figli abbiamo riservato troppa attenzione e comprensione e ora questo rischia di ripercuotersi contro di loro. È il messaggio di Genitori fate un passo indietro (Franco Angeli), un saggio severo e convincente dello psicologo Luciano Di Gregorio.

Il problema:

«Abbiamo creduto di essere buoni genitori facendo i genitori liberali, ovvero riconoscendo ai figli il massimo della libertà di esprimersi e, al contempo, preservandoli da sofferenze e frustrazioni, un modello che, peraltro, ha instillato in loro molte aspettative di autorealizzazione, successo sociale, felicità», spiega l’autore. «Risultato: rischiamo che i nostri figli siano incapaci di reggere l’urto con la realtà, che necessariamente comporta inciampi e sofferenze, perché non gli abbiamo trasmesso le risorse per farlo». Del resto, una ricerca Doxa mette in luce che la paura più grande per gli adolescenti italiani è proprio “non riuscire a realizzare i propri sogni” (è il problema del 40 per cento dei quindici-diciottenni).

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Heide Benser//Getty Images

Le soluzioni:

«In primo luogo potremmo fidarci di più del nostro intuito genitoriale: se saremo capaci di fare tabula rasa dei preconcetti che finora hanno sostenuto i modelli educativi e dell’idea di essere genitori gratificanti a tutti i costi, riusciremo a trovare in noi un intuito e una capacità di autoanalisi che potranno rigenerarci, oltre che come genitori, anche come individui». Di Gregorio suggerisce la soluzione della
“capacità negativa”: «Si tratta di attivare una predisposizione mentale che ci porti a non intervenire di continuo per favorire la soluzione delle difficoltà del figlio. E restare in attesa fiduciosa che lui, da solo, compia quegli atti creativi che, prima o poi, finiranno per renderlo protagonista autonomo delle proprie scelte».