Anoressia. Anzi, Ana, quasi un nome proprio (è così che si chiama l'anoressia nei tanti siti web che fanno propaganda suicida della magrezza), una che diventa "di famiglia" quando in famiglia qualcuno si ammala (così come di bulimia, l'altra faccia della stessa medaglia). Ed è, prima di tutto, smarrimento, come racconta lo psichiatra Armando Cotugno, responsabile del Centro per la cura dei disturbi alimentari della Asl Roma E. «Nel 2008, a una tavola rotonda, si alzò dalla platea una signora bionda che disse: "Molto belli i suoi propositi, ma come madre di un paziente sono testimone del fatto che di ciò che ha detto non esiste niente!". Fu la prima sfida lanciatami da Ilaria, esasperata dall'inutile vagare nel ginepraio di servizi, spesso inefficaci nel farsi carico dei diversi aspetti della cura». 

 La signora bionda era Ilaria De Laurentiis che, tre anni e mezzo dopo quel primo incontro, con il marito Raffaele Brunetti girerà nella struttura di Cotugno il docufilm Ciò che mi nutre mi distrugge, il motto di chi soffre di anoressia, spesso tatuato nella versione latina Quod me nutrit me destruit, su braccia e schiene scarne, per documentare il percorso verso la guarigione di quattro donne. Ilaria e Raffaele, registi e autori, ma soprattutto genitori di un ragazzo che si è ammalato a 16 anni, hanno sperimentato il dolore, la rabbia impotente e la vergogna che spesso assale i pazienti e i loro familiari alle prese con un disturbo camaleontico, il cui trattamento non sempre è lineare e coerente. «Non è facile», spiegano, «per le famiglie esporre il proprio dramma. In alcuni casi è difficile anche ammettere di trovarsi di fronte a una malattia». 

Il primo errore è considerare l'anoressia un disturbo esclusivo dell'adolescenza, poiché si è abbassata in modo preoccupante l'età d'esordio, come testimonia il professor Stefano Vicari, responsabile dell'Unità operativa di neuropsichiatria infantile dell'ospedale Bambino Gesù di Roma, e autore de L'insalata sotto il cuscino (Tea edizioni). «Se in passato avevamo a che fare prevalentemente con giovani donne, oggi si tratta di bambini di nove, dieci, 11 anni», spiega Vicari. «E i loro disturbi sono veri, non capricci: il controllo e l'ossessione diventano invalidanti e occupano la giornata, tutto ruota intorno al cibo. Sotto i 16 anni vediamo quasi esclusivamente casi di anoressia, anche talmente gravi da costringerci al ricovero. E cominciano a esserci anche i maschi». 

Ed ecco il secondo errore sull'anoressia, cioè pensare che sia un problema solo femminile. È vero che secondo le stime del Cidap (Centro italiano disturbi alimentari psicogeni) riguarda oltre due milioni tra donne e ragazze. Ma, negli ultimi anni, la patologia è cresciuta del 10 per cento anche tra i maschi, con un 20 per cento dei casi tra i 13 e i 17 anni. La prima cosa da capire? «Che si tratta di un disturbo psichiatrico», prosegue Vicari, «quindi "inseguire" i ragazzi sul sintomo, il cibo ("mangia un po' di più, perché non finisci quello che hai nel piatto?") non serve a niente. Bisogna affrontare il pensiero che c'è dietro alla restrizione del cibo, cioè una chiusura, una rigidità, un controllo ossessivo delle proprie caratteristiche fisiche».

#1 Quali sono i campanelli d'allarme dell'anoressia? 
«Occorre fare attenzione a tutta una serie di comportamenti, non solo alla restrizione alimentare e all'attività fisica intensa per bruciare calorie (tipicamente maschile)», sottolinea Vicari. «Si va dalla cultura del fisico che diventa il centro della vita alla scusa della "dieta", fino a stratagemmi come bere moltissima acqua per non sentire fame, dire che si va a mangiare da una compagna di scuola e invece non è vero, o trovare continue scuse per alzarsi da tavola. Anche l'indossare abiti molto larghi può essere un segnale, così come l'abuso di lassativi e, naturalmente, il dimagrimento». «Non è detto però», spiega Roberta Cacioppo, psicologa e psicoterapeuta a Milano, «che da qui si sviluppi la patologia vera e propria. Progredendo verso la malattia si ha perdita di almeno il 25 per cento del peso corporeo, assenza di ciclo mestruale, pancia gonfia, pelle, capelli (e denti) danneggiati, pressione bassa».

#2 Cosa può fare la famiglia di un'anoressica? 
«Prima di tutto, prendere coscienza del fatto che si tratta di un disturbo del comportamento alimentare (Dca): è fondamentale per indirizzarsi con tempestività verso le cure più adatte», precisa Maria Grazia Giannini, presidente dell'associazione Il bucaneve. Purtroppo, «è molto difficile per un adulto avere a che fare con una ragazza con sintomatologia anoressica», dice la psicologa. «Dietro a questo disturbo, infatti, ci sono complesse dinamiche collegate al controllo e alla gestione della propria intimità, in contrapposizione alla percezione di un'intensa dipendenza emotiva dalle figure di riferimento. È importante che tutti i membri della famiglia (fidanzati compresi) si mettano in gioco, perché si tratta di una patologia in cui tutto il nucleo viene coinvolto. Occorre cercare di non essere troppo esplicitamente controllanti e/o troppo protettivi, non temere il conflitto, evitare un'eccessiva rigidità. Far sì che le comunicazioni non si riducano ad argomenti che riguardano esclusivamente il cibo». Ma che cosa ne pensa chi è coinvolto in prima persona? «Serve un atteggiamento fermo, non allarmistico, sereno e ottimista», spiega Laura, mamma di una ex anoressica. «Travolgere una persona malata con la preoccupazione, il senso di colpa (ce l'hanno già, non serve aggiungerne altro) o le minacce, è solo negativo. Essere presenti, fermi e positivi, è la cosa migliore. Riconoscere in maniera tempestiva i sintomi della malattia e del disagio è importante. Come prima cosa si dovrebbe cercare di instaurare un dialogo con la persona, e farle capire che ha bisogno di aiuto prima che sia troppo tardi: se si sospetta un disturbo del comportamento alimentare, rivolgersi subito a un bravo psicoterapeuta specializzato, senza passare tra le mille lungaggini (e magari errori) della medicina di base».

#3 Cosa fare davanti al rifiuto delle cure per l'anoressia? 
«La scarsa consapevolezza del disturbo è molto legata al rifiuto delle cure», sottolinea Cacioppo, «e ha a che fare con il continuo tentativo dell'anoressico di sancire la propria individualità. L'adulto deve essere pronto a tollerare il più possibile il fatto che il figlio rifiuti di farsi aiutare, o che cerchi il più possibile di farlo a modo suo (cioè con poche interferenze da parte dei genitori)». Chi soffre di Dca pensa di stare bene, di non avere problemi», spiega Anna, figlia di Laura. «Bisogna fare un passo alla volta, senza calcare troppo la mano o si rischia l'effetto opposto, cioè la fuga. Il Dca è sempre e comunque una richiesta di aiuto, bisogna saperla leggere e incanalare le energie in maniera positiva». 

#4 Che tipo di cure serve davvero contro l'anoressia? 
«In genere un trattamento misto: medico (pediatra, endocrinologo, ginecologo, dietologo e così via) e psicologo-psicoterapeuta lavorano in sinergia», spiega Cacioppo. «Nei casi più gravi può essere necessario il ricovero, con alimentazione forzata e cure mediche integrative».

#5 Anche i familiari partecipano alla terapia? 
«Certo. Devono collaborare con i curanti, e non attribuire al malato la responsabilità di quanto sta accadendo», precisa Roberta Cacioppo. «Occorre essere presenti, non fare pesare il "dove abbiamo sbagliato?", perché innesca il senso di protezione e scatta il "voi non avete sbagliato niente, sono io quella sbagliata"», prosegue Laura. «Occorre accompagnare senza diventare complici della malattia, quindi con fermezza e qualche no. È importante che la famiglia si metta in discussione e cerchi di abbracciare la situazione con intelligenza, calma e calore».

#6 Si può imporre la cura per l'anoressia? 
«No, a meno che non si arrivi al limite della terapia coatta con ricovero in ospedale», afferma Cacioppo, «ma si tratta dei casi molto gravi». «A me è stata imposta in un primo momento», sottolinea, Anna, «ma se non fosse stato così non sarei qui adesso». 

#7 Di anoressia si può guarire? 
«Sì, attraverso percorsi specifici, con le diverse figure che lavorano in sinergia», afferma Cacioppo. «Gran parte di questi disturbi evolve positivamente: oltre il 60 per cento dei casi recupera completamente», aggiunge Vicari. «Le forme infantili e giovanili hanno in genere una buona evoluzione, senza dimenticare che più l'intervento è precoce e completo (quindi medico e psicologico), più ci si rivolge a centri specializzati, maggiori sono le possibilità di successo». 

Il 15 marzo, dal 2011, si celebra la Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla,  per la sensibilizzazione sul tema dei disturbi del comportamento alimentare, evento promosso dall'associazione Mi nutro di vita. Sui social è partita la campagna di sensibilizzazione #coloriamocidililla