«Metti la testa sul cuscino e invece del sonno giunge un nodo in gola che non vuole andare giù. Bevi un poco d’acqua, ti schiarisci la gola, ma il sintomo peggiora. Aggiungi un cuscino dietro la testa, giri a caso due tasti del telecomando, “magari con Marzullo mi distraggo”, ti ripeti col nodulo che si fa sempre più grosso, a ridosso dell’epiglottide. Niente panico, ti dici, afferrando una pastiglietta di antistaminico che tieni nel comodino. Magari è lo stomaco, pensi poi, mandando giù un gastroprotettore in gel. No, oddio, sarà stata quella caramella alla fragola, sono allergica a qualche colorante. Allora convieni che occorra una pastiglietta di cortisone orosolubile… Qualche minuto e infili le scarpe, boccheggiando vai al pronto soccorso a piedi, la camminata più lunga della tua vita in cui credi di morire a ogni passo. Arrivi, ti fanno sdraiare su una barella – in codice bianco?! – , ti misurano il respiro con una pinza al dito. È buono, dicono, hai qualche bollicina in gola. Poi: “Ha litigato col fidanzato?”».

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Così, con leggerezza dolente, racconta oggi la sua ipocondria Giusella De Maria, giovane insegnante di lettere che qualche anno fa prestò la sua ossessione per le malattie a Nina, protagonista del suo romanzo Io non sono ipocondriaca (Mondadori), giocato tutto sul filo dell’umorismo e del quale ha da poco ultimato di scrivere il sequel. «È centrato sulla relazione della protagonista con il figlio, a cui cercherà di non trasmettere la sua ansia per la salute. Mia nonna era terribilmente ipocondriaca, ed è morta a 90 anni, sanissima. E anche mia madre. Io ci convivo, nel bene e nel male, da 36 anni, ritrovandomi, almeno sei-sette volte l’anno, a precipitarmi verso un pronto soccorso, dove poi magari mi chiedono se sono in tilt perché ho, appunto, problemi con il fidanzato».

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In effetti l’ipocondria – ora neo-definita “ansia per la salute” o “ansia di malattia” – è un disturbo grave, che causa sofferenze capaci di minare, oltre all’equilibrio personale, anche carriere e matrimoni. Un problema certamente in clamorosa crescita, al punto da essere considerato una sorta di epidemia psicologica. Chi ne soffre produce un circolo vizioso perfetto di preoccupazioni compulsive legate al proprio stato di salute che finiscono, paradossalmente, per peggiorarlo, amplificando di conseguenza le preoccupazioni, e via di questo passo. «Molti ipocondriaci sono terrorizzati dall’idea di morire o dall’idea di dover patire una lunga sofferenza; molti, costantemente ossessionati dai loro terrori e dal cercare certezze risolutive sul proprio stato di salute senza poterle mai trovare, finiscono per ridurre le proprie difese immunitarie, e dunque per ammalarsi per davvero», dice un luminare in materia, il professor Giorgio Nardone, che ha fondato e dirige il Centro di terapia strategica di Arezzo, che ha affiliati in tutto il mondo, ed è autore con Alessandro Bartoletti del succoso manuale La paura delle malattie (Ponte alle Grazie), in cui cercano di decodificare questa patologia psichica che spesso viene ridicolizzata e derubricata a fissazione di mitomani che soffrono per disturbi immaginari.

Sintomi che si autoalimentano

«C’è voluto tanto tempo, ma ormai anche la medicina ufficiale ha riconosciuto che l’ipocondriaco non è un malato immaginario e che la sua sofferenza è autentica», dice Nardone, riferendosi alle sofferenze psichiche e organiche riconosciute, con una svolta epocale, nel 2013 dall’American psychiatric association. Secondo la celebre istituzione, gli “ansiosi per la salute” si distinguono in chi soffre di un “disturbo da sintomi somatici”– ovvero ha sintomi somatici specifici (ad esempio un dolore localizzato) o aspecifici (la stanchezza) e li sovraccarica di angosce sproporzionate – e chi soffre di “ansia da malattia”, che corrisponde a un quadro meno foca­lizzato sui sintomi e maggiormente sulla paura: del primo soffrirebbe il 75 per cento dei malati, del secondo il 25. «Certamente nessuno di questi si rende conto che sono loro stessi a produrre i sintomi di cui hanno paura. E se non è possibile dire con certezza quanti siano gli ipocondriaci nel nostro Paese, possiamo certamente dire che una parte molto rilevante degli esami diagnostici vengono svolti per rassicurare i pazienti e sono dunque inutili, per non dire deleteri, oltre che molto nocivi per le casse dello Stato. Perché, purtroppo, l’ipocondriaco si rivolge alla strutture mediche piuttosto che a quelle per la salute della cura mentale»

Costruire un rapporto sereno con il proprio corpo

Ma cosa provoca l’ipocondria? Nel libro vengono citate cause quali un’educazione basata sulla paura delle malattie, esperienze di vulnerabilità nella vita adulta, persino relazioni disfunzionali con il proprio medico. «Ma cruciali sono anche le responsabilità di Dr. Google», aggiunge Alessandro Bartoletti, psicoterapeuta, ricercatore associato e docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, nonché fondatore e direttore dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Strategica di Roma. «Google, fonte inesauribile di notizie mediche, attiva in chi è spinto dallo spettro della paura ricerche ossessive che finiscono per confermare i sintomi e, anzi, ne creano di nuovi, potenziando l’ansia. Un fenomeno ormai dilagante, per cui si è coniato il termine di cybercondria».

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Quanto alle cure, i due esperti applicano la terapia breve strategica, ideata appunto da Paul Watzlawick e Giorgio Nardone. «Si tratta di un metodo in grado di scardinare i meccanismi che alimentano il problema: in sostanza trasmettiamo al paziente delle strategie che gli permettono di interagire in modo nuovo con i suoi sintomi e che, in un tempo piuttosto breve - sette/otto sedute -finiscono per modificare le sensazioni, il vissuto del sintomo e aiutano a costruire un contatto più sereno con il proprio corpo», spiega Bartoletti. «Perché, lo diceva già Eraclito, nulla intimorisce di più l’essere umano delle proprie sensazioni. In fondo, è la paura di ciò che si sente dentro di sé a costruire l’ipocondria». Determinante, secondo il dottor Bartoletti è la prevenzione. «Prevenire non vuole affatto dire obbedire a un elenco di regole normative, le quali finirebbe per attivare resistenza e trasgressioni. Prevenire, in questo caso, ha più a che fare con il sentire che con il conoscere. Corri, mangia, riposa, studia, gioca, ama e, mentre lo fai, educati a sentire ciò che provi. È questo il pilastro su cui costruire il proprio benessere».