Per pancia s’intende quel groviglio di viscere, sangue e budella nel quale risiedono i nostri istinti primordiali e primitivi. Per pancia s’intende quel grande buco nero che borbotta quando abbiamo fame, si stringe quando abbiamo paura, ci schizza in gola quando siamo eccitati, si riempie di calde onde del mare e insetti sfarfallanti quando siamo innamorati. La pancia è il morbido preludio al sesso, è il luogo dei baci indecenti che provocano sospiri e gemiti, è il volto più pudico e segreto di una donna, è una creatura mitologica dal volto roseo e un solo occhio cieco e sensibile: l’ombelico. La pancia è la casa dei bambini. È il luogo in cui prima si sognano e si sperano, e poi dove crescono e si nutrono. La pancia vuota non è mai un bel segnale, porta sempre cose brutte: fame, dolore, sofferenza, mancanza, sterilità.

Ho sempre obbedito alla mia pancia. Ho lasciato che scegliesse per me, ho lasciato che si riempisse come e quanto chiedeva, ho lasciato che si facesse baciare ed esplorare, ho lasciato che decidesse scuole, amori, lavoro. La pancia è soprattutto un grande centro di piacere e di illusione. Nella pancia comanda Dioniso e tu sei la sua solerte e obbediente Baccante. Al suo interno si consumano orge e baccanali, assassinii e crimini efferati, nelle sue stanze si celebrano sacrifici opulenti e riti culinari, tra le sue pieghe la mia vita ha continuato a galoppare spinta dall’istinto, dall’ingordigia, dalla prepotenza. Fino a oggi. Oggi sono in una sala d’aspetto e attendo, insieme ad altre donne, di sapere se potrò tagliarmi la pancia e finalmente assumere io il comando. Oggi, tramite tre fori sul mio ventre, il mio stomaco verrà reciso e ridotto drasticamente per aiutarmi ad abbandonare questo mio ingombrante corpo di obesa.

L’intervento si chiama sleeve gastrectomy. Da oggi la mia vita cambia. Oggi io rinasco. Marco si inginocchia ai miei piedi e mi infila delicatamente le calze antitrombo. Tra pochi minuti ci separeremo, e lui è qui che mi spoglia e piega i miei vestiti, cercando di essere ordinato. Provo ad aiutarlo, ma mi tremano le mani, e lui mi toglie dolcemente gli indumenti e li sistema svelto. Ride, sorride. Da quando siamo arrivati in ospedale fa il buffone, parla ad alta voce, prende in giro le infermiere. Perché ha paura. In tutti questi mesi di attesa, spesso gli ho domandato cosa provasse, cosa pensasse. Le sue risposte sono sempre state risposte belle, risposte buone, risposte di chi vuol sostenere senza angosciare. Ma ora siamo qui, in questo stanzino, io sono nuda ma non c’è nulla di sensuale tra noi, c’è solo la voglia di prendersi cura l’uno dell’altra. Mi tratta come una bimba, mi sposta una ciocca di capelli, mi toglie i bracciali e la fede. E la bacia prima di metterla via.

Portable hospital bed in hallwaypinterest
David Sacks//Getty Images

E ora vorrei chiedergli scusa. Per essere arrivati sin qui, per essere cambiata, per non essere stata forte e capace, per non essere più la donna che ha sposato. E vorrei chiedergli se lui sa riconoscere l’esatto momento in cui l’ho lasciato solo, e mi sono costruita questo gigantesco, ingombrante, vistoso bozzolo. Ma sono domande che non posso fare, perché scenderebbero lacrime che non è il momento che scendano. Ci baciamo, quando è il momento di separarci, con un bacio di arrivederci. Marco sorride e io so che sta odiando tutto questo. Odia gli ospedali, odia i medici, odia essere qui ora. Durante la preparazione all’operazione, l’infermiera viene a conoscenza del mio lavoro e mi chiede una consulenza trucco immediata. Le rispondo che è bravissima e bellissima e che va già bene così.

Riesco a pensare che tra poco perderò il controllo sulla mia vita, per tre ore non sarò più qui, e sì, a questo punto ho anche una fottuta paura di morire. Vorrei dirle di riferire a Marco che lo amo anche quando russa, che lo amo anche quando va a pulire il giardino con le scarpe da 300 euro, che lo amo quando cucina e unge anche i vetri del vicino davanti. Vorrei dirle di riferire a Marco di aspettarmi, che sto tornando, che sono sempre io, che rivoglio quella fede al dito al più presto. Ma mi addormento. Vomito. Dolore. Sonno. Ma chi diavolo me lo ha fatto fare? «Ehi, amore, sono qui». Il barbone di Marco tra la nebbia del sonno e del dolore. Sorride. Ecco perché l’ho fatto. Ora mi ricordo.