L'ho capito sin dal primo istante che io e tua madre avremmo avuto dei problemi: da quel pranzo di Natale in cui aveva già deciso che mi sarei dovuta sedere accanto a lei, in modo da potersi cimentare da subito nell'attività in cui l'avrei vista impegnata per tutti gli anni a venire: parlare. Tua madre parla senza chiedersi neppure per un attimo se quello che dice possa interessarmi, inizia a elencare per filo e per segno tutto quello che ha fatto, dalla mattina quando si è alzata fino alla sera quando si è coricata, i vetri che ha pulito, la cicoria che ha ripassato. E poi divaga: come ha rammendato le tende, come ha spinato il pesce, dove è bene portare i bambini al mare.

Tutto questo, che è già uno strazio, è aggravato da continue toccatine. Hai presente? Certo che hai presente: è tua madre. Lei scandisce il ritmo dei suoi interminabili monologhi colpendo con la mano l'avambraccio del povero ascoltatore. Una tortura cinese: tin, tin, tin. Ho questa teoria: le suocere sono così odiate perché incarnano la madre che non abbiamo avuto. Mia madre non è verbale, non è tattile. Non ha nemmeno tatto. Quando ha visto nostra figlia Matilde la prima volta, molto seriamente mi ha detto: «È uguale a tua suocera». Quello che vorrebbe sentirsi dire ogni puerpera. Mia madre preferisce pensare che mia figlia somigli più all'altra nonna, perché è un'esperta di vittimismo. Il che è terribile, ma sempre meglio che essere un'esperta di smargiassate.

Tua madre, facci caso, è la protagonista indiscussa di tutti i suoi racconti: potrebbero farci una saga. Lei è la superstar della sua tormentata ma rutilante esistenza, la supernonna (è lei ad attribuirsi questo soprannome): si consegna da sola la coppa e si fa gli applausi… Ogni aneddoto si snoda in tre atti, secondo il canone aristotelico: 1) c'è un problema insormontabile 2) che tua madre, con tenacia, saggezza, forza di volontà, enorme intelligenza, fiducia in se stessa (la faccio breve) 3) miracolosamente sormonta. Come se non ci fossero già i presupposti per l'omicidio premeditato, tua madre crede di essere molto in gamba, ma nella fattispecie, nettamente migliore di me.

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La prima volta che abbiamo seriamente rischiato di venire alle mani è stato quando le ho chiesto se Matilde poteva dormire a casa sua. No, non se ne parlava. Non perché non le andasse, eh, non perché avesse altro da fare, non perché l'idea di dormire con la nipote le mettesse ansia, per carità, niente di tutto ciò sfiorerebbe mai una supernonna: Matilde non poteva dormire da lei perché sarebbe stato troppo traumatico per una bambina così piccola. Che tradotto vuol dire: tu, madre snaturata, saresti in grado di sfregiare la psiche di mia nipote; per fortuna in città c'è una supernonna che sventerà il pericolo e farà trionfare il Bene. Stiamo parlando, per la cronaca, di una bambina che all'epoca aveva un anno e passa, la stessa che un anno più tardi aveva sufficiente dimestichezza linguistica da dire: «Mamma, papà, voi uscite, io resto a casa».

Tua madre mi contrappone costantemente un modello: lei. Per diventare supernonna, bisogna essere stata come minimo supermadre. Le supermadri sono quelle che pesano il figlio prima e dopo la poppata, che hanno il filo diretto con il pediatra, che tengono il diario in cui registrano le prime paroline, i primi passi; quelle che scattano 2.000 foto, e poi le incorniciano e se le appendono sul frigo; quelle che lavorano part time per stare più tempo in famiglia, che sanno distinguere alla prima occhiata le bollicine del morbillo; quelle che rinunciano alle feste, agli impegni perché il bambino ha un po' di tosse, un po' di spleen. Quando il piccolo mette il primo dente sono lì, ad accorgersene prima di chiunque altro. Hanno i fazzoletti in borsa, il ciuccio di scorta, i giochi in tasca. Se il bambino piange, lo cullano finché non smette. Si addormentano con lui, in qualsiasi posizione. Io non sono una supermadre. Forse sbaglio: ma è uno sbaglio che faccio con tutta me stessa. Quando sono andata in ospedale da mio padre, tua madre era lì, senza aver chiesto il permesso a nessuno; aveva portato tovaglioli e succhi di frutta e stava aiutando il vecchio a mangiare, calata nei panni di superconsuocera. Appena ha visto Matilde, ha mollato tutto e l'ha trascinata fuori, come se dovesse metterla in salvo dal disastro atomico: «Qui i bambini non possono entrare, ci sono germi resistenti!». Un altro trauma infantile sventato. Le ho dato le chiavi e le ho detto di portare la bimba a casa e di scaldarle la pasta e fagioli. Quando sono rincasata, Matilde stava mangiando gli spaghetti («Con me le minestre non le ha mai mangiate volentieri») e tua madre era stata così solerte da pulirmi il frigo, buttando nell'immondizia le verdure («Erano tutte marce»). Traduzione: lei sa occuparsi degli anziani, dei bambini, della casa. Io no.

Se fossi meno fragile e meno efferata, forse avrei tenerezza per lei. La verità è che non voglio fare la sua fine, non voglio essere una supermadre. Non voglio avere golfini infeltriti e un manuale di pedagogia sul comodino. Non voglio immolare la mia vita sull'altare di figli e nipoti. Passo tanto tempo con Matilde, togliendone al lavoro, allo sport, agli amici, ma non mi vergogno a dire che questo è un sacrificio. Gratificante, necessario, giusto ed enorme: sacrificio.

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A tua madre non sembra importare come sto, mi chiede solo e soltanto della bambina. Una bambina fortunata, che ottiene molte più attenzioni di quante ne abbia avute io. Ad ogni anniversario di qualcosa, tua madre ci convoca davanti a una crostata stortignaccola per scattarci le foto che poi attaccherà al muro, come se le foto potessero ricomporre il quadretto di una famiglia che non si tiene insieme. Non è così. I pezzi non si rimettono insieme solo con le foto. Né con le preghiere, quelle che lei recita mattina e sera. Servono le azioni, e a volte purtroppo non si rimettono insieme né con le preghiere né con le azioni, restano sfasciate senza una colla che tenga.