Due girasoli, piantati poco lontani l'uno dall'altro: uno diventa immenso, l'altro si ferma a 60 centimetri. «Me ne sono accorta proprio nel momento in cui mi chiedevo: dove bisogna mettersi per essere felici? A che distanza ci si può ancora volere bene senza perdersi del tutto? Mi è sembrata una metafora immediata». La scrittrice Ilaria Bernardini dice di aver capito che chi si lascia funziona come quei girasoli: ognuno ha un proprio tempo di crescita, di recupero, totalmente diverso.

Si era trasferita dopo la separazione in una casa nuova, con un terrazzo che la vecchia inquilina aveva riempito di piante. Non aveva mai avuto un posto per sé, da sola, e nemmeno del verde, guardava «con sospetto l'idea di riuscire a far sopravvivere me, mio figlio, le piante». E invece ha scoperto che in quei casi il giardinaggio è come un sortilegio: «Ci insegnano che bisogna saper finire le cose. Ma nella botanica non finisci mai, magari ciò che pianti nemmeno lo vedrai crescere, e in fondo questa è una liberazione pazzesca dal senso di colpa, dal senso del dovere».

Nel 2015 sono state oltre 40.000 le coppie italiane con figli minori che si sono separate: l'89% ha avuto l'affido condiviso

Su come si attraversa una separazione con un figlio, e su come si possono trovare le parole per raccontarlo, Ilaria ha scritto il suo ultimo romanzo, Faremo foresta, appena pubblicato da Mondadori. La parte più delicata del libro ruota intorno al momento in cui la protagonista e il suo ex marito devono spiegare al loro bambino che non saranno più una famiglia: «Non sapevamo ancora come dirgli che ci saremmo lasciati. Non sapevamo dirgli perché. Spesso provavamo le frasi con cui raccontarglielo ma ci sembravano sempre bugie o parole troppo complicate per lui. (...) Praticamente dopo ogni frase dicevamo: "Ha quattro anni". Che a volte voleva dire è grande abbastanza per capire e altre voleva dire è così piccolo che non può capire».

Sanno che quello sarà il primo grande dolore che daranno a quel bambino, sanno che lui è felice e però devono spiegargli comunque che l'amore finisce, che a volte il lieto fine non esiste. Ed è così - per trovare il modo giusto per farlo, il "come" - che decidono di rivolgersi alla mediazione familiare, come «una lunga sessione di prove per uno spettacolo teatrale triste di cui l'unico pubblico sarebbe stato nostro figlio». Una sessione necessaria, per rendere il dolore più masticabile, più lucido.

Resilienza e formule segrete

«La mediazione familiare aiuta i genitori in via di separazione a focalizzarsi sui bisogni dei bambini, rendendo più facile la comunicazione», spiega Gisella Pricoco, mediatrice familiare dell'associazione "Gea - Genitori ancora" e referente per la Lombardia di Medefitalia, organizzazione nazionale della categoria. «Non lavoriamo sul legame, ma insegniamo loro a recuperare ciò che di buono c'era nella relazione. Oggi si parla molto di resilienza, e in effetti si agisce proprio su quella: li aiutiamo a capire che ce la possono fare, che possono reagire in maniera positiva al cambiamento, al futuro».

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Una separazione con figli minori coinvolti ha riguardato nel 2015, secondo gli ultimi dati Istat, oltre 40.000 coppie italiane. Di queste, l'89 per cento ha avuto l'affido condiviso; oltre il 50 per cento dei bambini ha meno di 11 anni. Uno dei primi passi da affrontare è proprio riconoscere che è finita e trovare il coraggio di dirlo ad alta voce. «Se di qualcosa non si può parlare, si genera la convinzione che sia spaventoso, terribile», dice Pricoco. «È importante dialogare con i figli, non solo comunicando una scelta ma anche ascoltandoli, per permettere loro di raccontare le paure che stanno vivendo. I bambini infatti si pongono una serie di domande: la mamma e il papà continueranno a volermi bene? Che cosa mi succederà? Se si sono separati è colpa mia? Poterne parlare significa anche poterli rassicurare».

Abbiamo cominciato a parlare ed eravamo titubanti, molto addolorati: quando i bambini hanno capito, il più piccolo si è messo a piangere, l'altro è scappato via

È vero: non esiste una formula prestabilita per dire ai figli della separazione: dipende dal modo di essere dei genitori, dall'età che hanno i bambini. Ma ci sono dei punti fermi, stelle polari con le quali orientarsi. «Sicuramente va detto solo quando la decisione è stata presa: è importante tenere i figli fuori dai ricatti, dalle altalene emotive che accompagnano quasi sempre la fase precedente alla separazione. Questo serve anche a farli partecipare attivamente al cambiamento: li aiuta ad ambientarsi nelle nuove case senza sentirsi estranei, facendo scoprire loro anche gli aspetti positivi di questa novità», conferma Pricoco. «Spiegare il perché di una separazione non significa certamente entrare nelle dinamiche della coppia, spesso confuse, complesse. Ma si possono rassicurare i bambini sul fatto che resteranno comunque figli, che il legame con i genitori, l'amore, rimangono. È meglio comunicarlo in modo sincero e, se si riesce, insieme, per poter dare una spiegazione uniforme. Se invece non è possibile farlo insieme, diventa importante concordare che cosa dire: i figli hanno bisogno della coerenza».

Spettacolo triste

Anche Ilenia, come la protagonista di Faremo foresta, descrive il momento in cui lei e il suo ex marito hanno comunicato ai loro figli il divorzio come «una tristissima pièce teatrale. La nostra era una separazione molto conflittuale, ma almeno eravamo d'accordo sul rivolgerci alla mediazione familiare. Ci avevano spiegato come doveva avvenire questo momento, avevamo provato con loro non solo cosa andava detto, ma anche come. I miei figli avevano sei e tre anni, e dovevamo tradurre per la testa di bambini così piccoli il fatto che loro non avevano responsabilità e non potevano farci nulla, e che noi avevamo preso questa decisione di comune accordo. Difficile, però, che uno dei due non faccia la vittima, soprattutto quando la separazione è così fresca. E sono convinta che i ragazzi non si bevono niente che non sia vero».

A Ilenia e al suo ex hanno suggerito di scegliere un luogo neutro: «Siamo andati ai giardini pubblici, in un giorno di nebbia. Non era una cosa che facevamo abitualmente, era inverno, il senso di alienazione era enfatizzato al massimo. Abbiamo faticato a ritrovare il copione che ci serviva. Abbiamo cominciato a parlare ed eravamo titubanti, molto addolorati: il più piccolo è scoppiato a piangere, il più grande è scappato via. Alla fine, li abbiamo quasi costretti a terminare questa prova terribile: era un passaggio obbligato, come quando devi vedere il corpo di una persona cara per elaborare il lutto. Ma mi sentivo come gli stessi piantando una spada nel petto».

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Saverio, il figlio maggiore di Ilenia, oggi ha 17 anni. Quel pomeriggio non lo ricorda lugubre, bensì «anestetizzato. All'inizio eravamo talmente felici: ci avevano portato sulle giostre e non l'avevano mai fatto prima». Proprio per questo, però, nasce anche una sensazione sottile, come un'intuizione: «Appena prima che mi chiamassero, ho capito che stava succedendo qualcosa di strano e mi sono preparato. E infatti mia madre mi ha detto: "Io e il papà ci siamo lasciati e lui andrà a vivere in un'altra casa". Ecco, è questa la cosa che mi ha colpito di più: non sapevo ancora cosa fosse il divorzio, ma immaginare tuo padre che se ne va è una cosa difficilissima. Ho dovuto realizzare che il lasciarsi comportava un lasciarsi fisico». Saverio oggi pensa che l'immediatezza di quell'annuncio sia stata positiva, che gli abbia fatto bene. «Sicuramente l'ho preferita. Forse è meglio ricevere quel pugno in pancia, invece di dover capire da solo piano piano come stanno le cose. Prima, mamma e papà litigavano a casa, ma lo vivevo come un gioco: una da una parte e uno dall'altra, e io e mio fratello che ci schieravamo ora di qua, ora di là».

La faccia scura del mondo

Che la litigiosità sia un elemento da risparmiare ai figli quando ci si lascia, lo confermano tutti i mediatori familiari. «Per un bambino, la guerra tra i genitori è un po' come scoprire la faccia scura del mondo. Si sente non protetto. È il danno maggiore, in assoluto: quando il conflitto si alza, i suoi bisogni passano quasi sempre in secondo piano», spiega ancora Pricoco. «E invece per un bambino è importante il fatto che, anche se vivono in due case diverse, i genitori continuino a essere in accordo sulla sua crescita. Questo gli comunica sicurezza e tranquillità: pensare che nella mente della mamma ci sia un pezzetto del papà e nella mente del papà un pezzetto della mamma, e che questo li aiuti a ragionare insieme sulla sua crescita».

Cecilia oggi ha 32 anni, andava alle medie quando i suoi genitori le hanno detto che si erano lasciati. Il momento esatto dice di averlo rimosso, però ricorda come si è sentita sollevata in seguito, sapendo che dopo la scuola sarebbe tornata in una casa dove non ci sarebbero più state liti. «Ho chiesto ai miei come me l'avevano spiegato: loro giurano di avermelo detto insieme, ma io non ho nessuna memoria di una conversazione particolare, o di come mi sia sentita. Ricordo un giorno che avevano discusso, si sono seduti uno alla mia destra e l'altra alla mia sinistra. Io cercavo di farli tenere per mano, senza riuscirci».

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Gli screzi erano diventati una costante in quel periodo. «Mio padre si è trasferito. Mi ricordo le difficoltà iniziali di abituarsi alla situazione, litigi furibondi - tutta questa cosa è avvenuta tramite litigi, non c'è stato un momento di raccoglimento positivo. Ora capisco che era rabbia repressa, per il fatto che le cose non avessero funzionato: ogni pretesto era buono, ognuno aveva il suo obiettivo, io, mio padre, mia madre». Se pure le parole esatte che le sono state dette Cecilia le ha perse, la sensazione di quando teneva in braccio la sorella appena nata le è rimasta. «Quello mi rendeva felice. Da lì è nato il fatto che, se oggi mi chiedi chi è la mia famiglia, ti rispondo che sono mio fratello e mia sorella: il mio concetto di famiglia si è ristretto allora. Una cosa che mi ha detto mio fratello è che non si è trattato di non avere più un padre, ma che ognuno si è ripreso separatamente. Abbiamo smesso di essere una famiglia in quel momento».

Cosa succede dopo

Restare famiglia anche quando tecnicamente non lo si è più: dice Ilaria Bernardini che è come creare una foresta nel deserto. «All'inizio ci si lascia pensando: poi andrà tutto bene, arriverà la distanza giusta. E invece a un certo punto realizzi che, anche da lasciati, quello per cui non ti sei capito resta identico», spiega. È un punto che ritorna in tante storie di separazioni: le dinamiche restano le stesse, e così le situazioni di conflitto. A quel punto, per sopravvivere, occorre dare un significato nuovo alla parola "famiglia". Per farlo, suggerisce ancora Bernardini, si possono imitare le piante, instancabili nella loro crescita, anche se non sono vicine. «La foresta ha radici antichissime, da lontano sembra omogenea, ma se ci entri scopri che ogni albero è diverso. E secondo me la famiglia è così: da fuori ti sembra fitta, da dentro c'è uno spazio molto largo tra le cose. Questa scoperta è un piccolo abracadabra, una magia che ti protegge dalla paura, dal dolore. Nessuna delle due metà di un'ex coppia è stata cattiva, è proprio che l'amore funziona come la botanica: scompare, riappare, è una stagione».

Il libro

L'ultimo romanzo di Ilaria Bernardini è Faremo foresta (Mondadori, pagg. 192, € 19): è la storia di Anna, che perde un amore ma impara a prendersi cura di sé e degli altri, ispirandosi al grande potere taumaturgico della botanica.

Cover Faremo forestapinterest