Nell’ultimo anno ho scritto un libro. Dovrete credermi senza prove, perché le pagine che ho buttato sono più di quelle che ho tenuto, e non posso dimostrare che sono stata chiusa in casa a scrivere. Non posso dimostrarlo con un adeguato numero di cartelle di testo, ma posso dimostrarlo con le cifre della mia manutenzione estetica. Nell’ultimo anno sono entrata dal parrucchiere tre volte, in occasione di tre cene mondane alle quali dovevo andare per forza e dove per forza dovevo risultare presentabile; il resto del tempo, ho tenuto la ricrescita dei capelli bianchi senza preoccuparmene minimamente e, quando sono diventati troppo lunghi, ho preso il trinciapollo e ho tagliato a caso; ma non troppo, giacché era importante che ogni mattina fosse risolutivo il pacchetto di otto elastici che avevo acquistato da Tiger: me li legavo e non ci pensavo più fino a sera.

Nell’ultimo anno sono andata dalla manicure non saprei dire esattamente quante volte, ma solo quando le pellicine mi sanguinavano. Nell’ultimo anno non ho badato minimamente a quel che mangiavo (stare attente a quel che si mangia serve solo a entrare nei vestiti, e se passi la maggior parte del tempo chiusa in casa ti bastano due pantaloni con l’elastico per quando vai a pranzo fuori); a un certo punto avevo un rigonfiamento vicino alle ghiandole, sono andata dal medico molto preoccupata, lei ha palpato la zona e impietosamente ha diagnosticato: è ciccia.

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Non ho partorito, un anno fa, quindi non ho scuse: ho letto in una rivista americana che questa drammatica fase della vita d’una donna, quella del “lasciarsi andare”, avviene di solito dopo il parto, e che è vergognosa la pressione della società perché la madre torni in forma, e che nessuna donna è così eroica da osare non conformarsi ai canoni imposti. Si vede che sono un uomo. Traduco un passaggio dell’articolo: «Lasciarmi andare significa che posso mangiare pollo fritto quando voglio e non indossare pantaloni che mi tirino al cavallo; non preoccuparmi che i miei capelli siano più sottili o le mie cosce più grosse di quand’ero adolescente; e che le mie sopracciglia non siano sempre perfette».

Inutile dica che le sopracciglia, nell’ultimo anno, le ho sistemate le stesse tre volte dei capelli. Tra l’altro quelle tre volte, non essendoci più abituata, mi sono accorta di che insopportabile lungaggine sia la manutenzione estetica: quando in un solo pomeriggio devi d’urgenza renderti presentabile, e quindi fare di fila colore, piega, mani, ceretta, ti chiedi che pazienza abbiano quelle che si sottopongono alla trafila tutte le settimane, e che dedizione avessi tu, nei decenni in cui hai considerato normale stare sei ore a farti rimaneggiare senza sbottare d’insofferenza e chiedere se per favore potevano risciacquarti la tinta in anticipo perché la tua pazienza era esaurita.

Nutro inoltre l’atroce sospetto che non faccia gran differenza. Certo, con la piega fatta e senza la ricrescita bianca mi guardavo nello specchio e mi sembravo un po’ meno una sfollata, ma chissà se gli altri invece non mi vedevano uguale a sei ore prima. Su Instagram tempo fa ho messo una mia foto di ventenne riccia, con una didascalia del tipo «Avevo già smesso di pettinarmi». In realtà quella foto era il fermoimmagine d’un’eccezione: dalla terza media fino a un paio d’anni fa, sono stata devota alla messa in piega più di quanto mia nonna lo fosse al rosario. Al liceo andavo dal parrucchiere tre volte a settimana. Epperò nei commenti di Instagram è comparsa una mia ex compagna di scuola; ha commentato: «Non ti pettinavi neanche quando eravamo in classe insieme». Non ho una casa di proprietà perché ho investito quei soldi in stiraggi professionali, e nessuno s’è accorto della differenza. Tanto valeva mi comprassi un maniero e restassi spettinata.

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Proprio come ho fatto in questo anno che, cara articolista americana, ho vissuto esattamente come nella tua descrizione d’ipotesi eroica dell’irrealtà (con una piccola variazione: al pollo fritto ho preferito i salumi). È stato piuttosto semplice, ti confesso. Di grande aiuto mi è stata la consapevolezza che essere strafiga a tempo pieno è un lavoro (faticosissimo), ma non è il mio (per fortuna). Né potrà diventarlo per un po’: con questo ritmo di produzione di pagine, perché il libro che ho scritto nell’ultimo anno diventi davvero un libro ci vorranno almeno altri tre riposanti anni in cui fregarmene della ricrescita. Potrò farlo grazie a una doppia gran fortuna: quella che essere bella non sia il mio mestiere, e quella del mio esserne consapevole.

Ho alcune conoscenti che di lavoro non fanno le modelle o le attrici epperò ogni giorno mettono su Instagram proprie foto che ricordino al mondo che sono strafighe: vestite da sera, in tacchi altissimi, o in simulazioni di acqua-e-sapone-appena-sveglia che hanno in realtà richiesto due ore di preparazione (essere fotogenicamente spettinata e slavata è un lavoro di precisione). Non so se lo facciano per paura di non essere più desiderabili, o per rimorchiare qualcuno con cui tradire i mariti, o perché, come l’articolista americana, sentono che la società impone loro severi standard estetici. Forse credono in quella leggenda chiamata “il complesso industriale della bellezza”, l’infernale meccanismo con cui noi megere che facciamo i giornali convinceremmo noi stesse e tutte le altre che se non si è delle reginette di bellezza ci si deve vergognare. È ben bizzarro che, con tutti i giornali che leggo, a me ’sto complesso non sia ancora venuto.

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Sospetto che sia un po’ come quando si legge di quant’è eroico andare da sole al ristorante, con tutti che ti guardano strano. Ogni volta che mi trovo davanti a una di queste cronache mi chiedo se sono un’eccezione io, che mangio da sola al ristorante spessissimo (e coi capelli legati e i pantaloni con l’elastico, perdipiù) e mi sembra che nessuno si accorga di me e mi guardi stupito, o se sono mitomani loro, convinte che un intero locale si fermi a domandarsi come mai quella signora pranzi da sola. Come ci hanno spiegato vari scrittori, la gente bada a noi molto meno di quel che crediamo. È una verità che metterò alla prova la prossima settimana. Devo presenziare alla quarta occasione mondana dell’anno, e fa davvero troppo caldo per andare dal parrucchiere.