Perfetta per il Salone 2016, dove uno dei temi è la visionarietà, la 29enne Viola Di Grado, adorata dal New York Times e già tradotta in otto Paesi, sarà a Torino per presentare il suo nuovo romanzo Bambini di ferro (La nave di Teseo): la storia, ambientata in Giappone, della piccola orfana Sumiko e della sua tutrice Yuki, anche lei cresciuta in istituto, entrambe accudite da madri-robot che fanno del loro meglio per sostituire quelle biologiche.

In questa storia la maternità surrogata non funziona troppo.

Per quanto sofisticate, le madri-robot sono imperfette in partenza, hanno gesti d'affetto calibrati come equazioni, il loro amore verso i bambini funziona solo se segue pedissequo la forma di un rituale.

E i «bambini di ferro» del titolo, chi sono?

In Giappone li chiamano issendai, desideranti: hanno menti troppo bisognose, come Yuki. Per il fatto stesso di avere bisogno – di affetto, relazioni, spiegazioni – non possono essere salvati.

Com'è il suo rapporto con la cultura orientale?

Sono laureata in cinese e giapponese, non mi sento troppo occidentale. Mi affascinano molte cose del Giappone: ho visto monaci androidi accogliere pellegrini, robot che aiutano i bambini autistici. Certo, i confini dell'etica sono un po' diversi dai nostri.

Tornerebbe a viverci?

Non saprei, mi piace spostarmi: muovendomi posso raccontare molti mondi. Sono stata a Londra finché non ho cominciato a pensare in inglese, ora vivo a Bologna ma mi pare di averla ormai consumata, dunque dovrò andarmene, forse in Islanda. La scrittura per me è vitale, mi salva dalla noia di essere solo me stessa.