Al liceo non portavo quasi mai i libri giusti, tanto ci pensava la mia compagna di banco, diligente più di me. Ma in fondo allo zaino, tra il diario e la merenda, c'era sempre un Dylan Dog. E un po' ci speravo che venisse a salvarmi, quel principe senza cavallo con ai piedi le sue Clarks. Mi piaceva perché era fuori dal tempo e dagli schemi, un eroe atipico, fragile e sensibile, idiosincratico ma sempre ben disposto all'amore. Le storie scritte da Tiziano Sclavi ti accompagnavano con magia in un'altra dimensione, dentro quell'ingranaggio fantastico che girava in modo perfetto. Quest'anno, con Mater Dolorosa, l'indagatore dell'incubo festeggia trent'anni, in un bellissimo albo a colori disegnato da Gigi Cavenago. Roberto Recchioni, sceneggiatore, autore e curatore della serie dal 2013, è il cuore del progetto e ne ripete il sogno, per noi lettori. Sembra lui stesso prender forma da un sottile tratto a matita, mentre gioca con la montatura dei suoi occhiali retrò e risponde alle mie domande seduto al tavolo di un caffè nel centro di Roma.  

Mater Dolorosa, uscito in edicola il 29 settembre, unisce alcuni elementi del passato legati a Tiziano Sclavi, dove i lettori più affezionati vogliono ritrovarsi, a nuove situazioni che hanno al contempo voglia di vivere. Cuna linfa vitale in quelle tavole, un messaggio di speranza. È stato difficile trovare un equilibrio che bilanciasse queste esigenze?

Detesto la nostalgia. Detesto il culto e il business della nostalgia. Ma amo il lavoro di Sclavi e lo amo perché è materia viva. Non sono belle storie perché legate a un momento specifico della nostra giovinezza, sono belle storie perché lo sono. Rispettare e farsi carico dell'eredità di Tiziano non significa mettere il suo lavoro sotto una teca, in un museo, ma trattarlo come materia viva e quindi mutevole. Allo stesso tempo però, bisogna bilanciare questa spinta per non allontanarsi dallo spirito originale. Quindi, in sintesi: sì, è stato difficile. Spero di esserci riuscito.

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Erica Fava
Roberto Recchioni

L'Indagatore dell'incubo, ora come allora, è sempre attuale con le sue fragilità e idiosincrasie. In cosa e come ècresciuto durante questi anni?

Spero di non averlo fatto crescere. Spero, piuttosto, di averlo riportato a essere più simile a quello che era. Con gli anni Dylan era cambiato, si era in parte sclerotizzato. Il mio lavoro e quelle della SBE tutta è stato volto interamente a cercare di togliere di mezzo le incrostazioni e farlo tornare a essere quel personaggio destabilizzante che era. Dylan sa bene che le risposte semplici ai problemi complessi sono sempre sbagliate. Lui deve esercitare il dubbio, deve mettere in discussione il senso comune, deve rifuggire dai dogmatismi.

Chi è il tuo lettore tipo? Hai ricevuto consensi anche da chi non avresti mai immaginato con un Dylan Dog in mano, oppure sei abituato ad una certatrasversalità?

Dylan è, per sua natura, un personaggio trasversale. Deve il suo successo proprio a questo. Ad esempio, se non avesse trovato un largo consenso nel pubblico femminile (di solito lontano dal tipo di fumetti realizzati dalla Sergio Bonelli Editore), non sarebbe mai diventato il fenomeno di costume e culturale che è diventato. Ma bisogna chiarire un punto: il pubblico di Dylan è il pubblico di Tiziano Sclavi, non il mio. Io sono solo quello che ha momentaneamente ereditato la sua creatura. I miei personaggi, quelli creati proprio da me, hanno un pubblico molto più circoscritto, fatto di lettori generalmente un pelo più giovani e maggiormente abituato alle provocazioni.

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Dove crei la tua sceneggiatura? E con quale stato d'animo nascono le storie migliori?

Scrivo ovunque. Sul divano, in uno dei miei studi, sul treno. Ho iniziato a lavorare in una redazione che si occupa, principalmente, di pornografia. Io scrivevo storie di ragazzini, mostri e meraviglie e, attorno a me, c'erano redattori impegnati a urlarsi improbabili titoli di pellicole Tripla X. Ho imparato ad escludere tutto quello che mi sta attorno quando scrivo. Poi, se posso scegliere il mio ambiente e momento ideale, nel salone di casa mia, a notte fonda. Quando devo scrivere un romanzo, una recensione, un articolo o una sceneggiatura a cui tengo particolarmente, quello è il posto e il luogo. Quanto allo stato d'animo, sono costretto a dire una banalità: peggio mi sento, meglio scrivo. È un cliché, me ne rendo conto, ma è purtroppo una cosa che devo accettare.