Lunedì 17 agosto tre chili di tritolo hanno scosso come un terremoto Bangkok aprendo una voragine al crocevia tra i lussuosi shopping center della capitale. Lo shock è indescrivibile, non solo perché siamo in un Paese mite ma perché qui, come altrove, non si spara sui passanti. Invece, è successo. E il bersaglio erano i turisti, come in Tunisia il 26 giugno e lo scorso aprile nell'isola di Samui.

«L'obiettivo è distruggere il turismo e l'economia», ha dichiarato Prawit Wongsuwan, Primo ministro. Maghreb, Egitto, Kenya, Indonesia, Malesia… Gli attacchi possono avvenire in tutte le località frequentate. Nessun Paese è a rischio zero, ma non dobbiamo smettere di sentirci liberi di muoverci. Non solo perché i servizi segreti non hanno mai avuto un programma di controllo così capillare come oggi, ma perché, come ha spiegato il filosofo norvegese Lars Svendsen in A philosophy of fear, la paura ci rende deboli e manipolabili. «C'è molta più probabilità di morire colpiti da un fulmine o da un virus che in un attentato», dice Svendsen. «Ma la paura toglie anche la lucidità mentale necessaria a capirlo».

L'arma emozionale«Il danno è prima di tutto emozionale», spiega Bruce Scheiner, autore del libro Beyond fear, «e le ripercussioni di una strage non dipendono dalla sua entità quanto dalle reazioni che scatena. Immagina che una bomba non scoppi e nessuno muoia: basta che provochi terrore e i criminali hanno comunque vinto». Se ti spaventi, fai il loro gioco. Forse per questo, sulle prime pagine dei giornali thai a 48 ore dall'accaduto si parlava già d'altro. Le vie d'accesso al crocevia sventrato erano già riaperte al traffico, mentre i quotidiani online aggiornavano in tempo reale l'elenco delle attività di messa in sicurezza organizzate dai capi di polizia di ogni regione, uno per uno, e il resoconto degli aiuti economici che il governo ha stanziato a favore delle vittime e di chi ha subito danni. Non fermarti se li vuoi fermare Da lunedì 17 ho preso già due aerei: nessuna coda in aeroporto, nessun ritardo.  I militari sorridono con la consueta gentilezza trasmettendo calma. La gente pensa ad aiutare e darsi da fare. Come ai tempi dello tsunami, tocco con mano la forza di uno spirito coeso, dove la collettività non si frammenta ma si sostiene. Loro la chiamano hen ok hen jai: compassione.

(Grazia Pallagrosi)

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