«Non ho abbandonato il lavoro perché non ho fatto niente di male. E poi ho bisogno di lavorare. Perché devo perdere tutto? Perché il mio capo è un maiale? È lui che si deve vergognare». (Vittoria, impiegata, forum online).

Il 43% delle italiane (cioè 8 milioni e 816.000 donne) ha subito, secondo l'ultimo rapporto Istat sul tema, qualche forma di molestia sessuale. La buona notizia: il dato è in calo. La cattiva notizia: l'unico settore in cui le molestie non diminuiscono, dal 1997 a oggi, è quello del lavoro. Sono un milione e 404.000 le donne che nel corso della vita lavorativa hanno subito molestie o ricatti durante la loro attività professionale, 425.000 negli ultimi tre anni. A richiedere "la tassa", in forma di prestazione o disponibilità sessuale, sarebbe di solito un uomo (nel 97% dei casi), a volte recidivo, che molesta promettendo un avanzamento di carriera o come abitudine regolare, preferendo ricorrere ad allusioni pesanti più che al contatto fisico. Le donne, in maggioranza, ritengono la molestia un fatto grave, ma meno di un quarto ha il coraggio di parlarne ai colleghi. E quasi nessuna ricorre alle vie legali. Perché gli uomini continuano a molestare e le donne a non denunciare? Si può rompere questo circolo vizioso?

Giù le mani (dal lavoro)

"La mattina, prima di arrivare nei campi, il padrone compra il cornetto e il caffè e li porta in auto. Se tu li prendi significa che accetti, che vuoi andare con lui. Se ti compri la colazione da sola, lui capisce che non ci stai. E non ti chiama più". (Alessia, bracciante agricola, inchiesta de Gli stati generali).

La prima paura, e non serve l'Istat per capirlo, è quella di perdere il lavoro. «L'Istat parla quasi un milione e mezzo di donne molestate sul lavoro, ma manca tutto il sommerso», racconta Loredana Taddei, responsabile Cgil per la parità di genere. «Gli ambiti più a rischio sono quelli con alta partecipazione femminile a bassa qualifica: pubblico impiego, commercio, tessile, agricoltura. Dove il rapporto di forza con il superiore è debole, il rischio sale. E cresce la paura di denunciare». Su 430.000 lavoratori vittime di caporalato, secondo un rapporto Flai Cgil 2016, il 42% sono donne, che per il 30% lavorano nell'illegalità. Vengono impiegate tra le 10 e le 12 ore al giorno, per 500 euro al mese, e sono preferite agli uomini perché ricattabili sessualmente.

«Denunciare per loro è quasi impossibile», spiega un'operatrice Caritas di Ragusa «perché non vengono credute, non si riescono a raccogliere prove per un processo e il pregiudizio che non sia violenza perché "se la sono cercata" è diffuso». Ma i "rapporti di forza deboli" non riguardano solo casi estremi. Riguardano, per esempio, i lavoratori part time. Che per il 65% sono donne. «Altri soggetti a rischio sono le lavoratrici inquadrate in fascia bassa, quelle a part time, le precarie», spiega Taddei. «Immaginiamo una madre single con due figli, scarso aiuto dal padre e un capo che la molesta: purtroppo è difficile che vada a denunciare». L'accordo quadro sulle molestie nei luoghi di lavoro, recepito da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria nel 2016, invita le aziende ad adottare una dichiarazione che sottolinei che le molestie non sono tollerate, oltre che specifiche misure per punire eventuali colpevoli. Ma «l'arretratezza culturale ancora troppo diffusa nel nostro Paese giustifica quei comportamenti, anche se identificabili dal nostro ordinamento come atti discriminatori». 
E l'invito, troppo spesso, resta ignorato.

La soglia di tolleranza

Se la parola violenza deriva dal latino vis, che sta per forza, la radice di molestia invece è moles, e cioè peso. Un termine che non implica una ferita, ma un disagio concreto. Una zavorra che grava sulla quotidianità, cui ci si può persino abituare. Secondo Laura Storti, presidente dell'associazione Il Cortile, che da anni si occupa di assistere psicologicamente donne vittime di molestie, «non ci deve meravigliare il fatto che le donne non denuncino subito. A volte non si rendono nemmeno conto di essere state raggirate. Il concetto di abuso è soggettivo: nella molestia non c'è nessuno che ti salti addosso strappandoti i vestiti, è una cosa più sottile. Un invito, un complimento, un'uscita che viene assecondata, salvo poi scoprirsi in una situazione di difficoltà. In tante finiscono per convincersi di essersi inventate tutto». Nel dubbio meglio rivolgersi a uno specialista, piuttosto che sottoporsi a un'umiliazione che alle lunghe «può causare stati di tensione forte, fino alla depressione».

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Denunciare o non denunciare?

«Lavoravo come praticante in un'agenzia di assicurazioni. Dopo tre mesi il capo mi ha portata nel suo ufficio, ha chiuso la porta dietro di sé e mi ha detto che se volevo restare dovevo andare a letto con lui. L'ho denunciato. Avevo registrato tutto». (Erika, segretaria, commento su blog)

La cosa migliore sarebbe denunciare subito, ma a volte non è facile comprendere se un certo comportamento sia molestia o no

L'art. 26 del decreto legislativo 198 del 2006 definisce molestie quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica o verbale, che violano la dignità di una lavoratrice creando un clima intimidatorio. Eppure, anche legalmente, la molestia cade spesso in una zona grigia, difficilmente identificabile. Spiega Andrea Dinelli, avvocato penalista: «La cosa migliore sarebbe denunciare subito, ma a volte non è facile comprendere se un certo comportamento sia molestia o no». Facciamo degli esempi. Se appoggiare una mano su un ginocchio senza il consenso è «violenza, perché interessa una zona erogena», accarezzare i capelli, «che la scienza non considera zona erogena», sarebbe solo un fastidio. «Masturbarsi davanti a una persona, in silenzio e senza costrizioni, non è molestia. Potrebbe essere considerato come un'ingiuria, reato che oggi è depenalizzato».

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Persino un gesto esplicito come il bacio non corrisponde necessariamente a una molestia: «Il bacio sulla guancia in contesto amichevole non è molestia. Se il contesto non è amichevole, va valutato caso per caso. Tentare di baciare un'altra persona, ottenere un rifiuto e poi lasciar perdere senza fare altro non è molestia, ma semplice avance. Nel momento in cui il comportamento allusivo cessa di fronte al rifiuto, non c'è reato». E se invece non cessa, come lo si può provare? «La giurisprudenza utilizza sistemi d'indagine tecnici come l'incidente probatorio con l'ausilio di esperti, per verificare la credibilità della vittima. Se la vittima è maggiorenne però è complicato, perché la ricerca della prova deve rispettare le regole processuali». La prova è dunque un punto fondamentale. In caso di molestie, specialmente verbali, «un buon accorgimento è quello di registrarle. Oggi, con gli smartphone, non è difficile».

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Un mondo meno molesto

Sezioni specializzate delle forze dell'ordine, esperti, psicologi, leggi e normative. Eppure non basta. «La chiave è il lavoro sugli uomini», spiega Laura Storti, la cui associazione ha gestito uno dei 25 centri in Italia per uomini maltrattanti. «Devono sapere che molestare una donna sessualmente è un reato. Che, se godono nell'approfittarsi di una posizione di potere, hanno un problema. E devono smettere di essere complici, di accettare che in ufficio accadano cose che tutti sanno ma nessuno dice». Un lavoro che non comincia allo sportello di un consultorio, ma «nelle scuole, che dovrebbero rompere gli stereotipi culturali che sono alla base delle molestie: la donna preda fragile, l'uomo forte cacciatore». Da cinque mesi il ministero dell'Istruzione ha emanato linee guida dirette a scuole e famiglie, che suggeriscono azioni per superare gli stereotipi e valorizzare il contributo delle donne. «Agire sul livello della cultura e delle storie condivise sul maschile e sul femminile», ha dichiarato la ministra Fedeli, «è fondamentale. Il contrasto più efficace alle molestie è nella prevenzione. E la prevenzione più forte è data da un cambiamento culturale profondo che nasce dalla scuola, con il contributo di tutta la comunità». Maschi inclusi.

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#MeToo, tre donne raccontano

1. La segretaria

«Lavoravo in uno studio legale come supporto alla segreteria. Avevo trent'anni, un contratto part time: il mio primo contratto non in nero. Un giorno, per risolvere una questione legata a un piccolo incidente con il motorino, sono entrata in contatto con un altro avvocato. Sono andata nel suo studio, gli ho lasciato i miei dati, e quando ha scoperto che lavoravo in uno studio legale, mi ha fatto capire che stava cercando una persona con le mie caratteristiche per la segreteria. Si trattava di un lavoro di maggiore responsabilità 
di quello che avevo: lo studio era più grande, avrei gestito più persone, avrei avuto anche diritto a una macchina. Ho accettato. Nella settimana tra la fine del vecchio lavoro e l'inizio del nuovo, l'avvocato mi ha invitata a pranzo. Poi mi ha chiesto di accompagnarlo a una cena di rappresentanza, ma ho rifiutato. Due giorni dopo si è fatto trovare sotto casa mia, insistendo per la cena. Ho detto ancora di no e si è offeso. Il lunedì successivo mi sono presentata allo studio per cominciare il lavoro: non solo non c'era la macchina, mancava persino la scrivania. Me ne sono andata il giorno dopo».

2. L'odontotecnica

«Lavorando come odontotecnica avevo spesso a che fare con i medici. Andavo nei loro studi per prendere le impronte e portarle al laboratorio e non potevo usare i pony per le consegne, perché capitava che fosse necessario fare qualche ritocco sul posto. Un giorno ho iniziato un rapporto di lavoro con un nuovo medico: dopo poco cominciò a darmi appuntamenti sempre più vicini all'orario di chiusura. All'inizio mi faceva comodo, così dopo l'ultimo giro di consegne me ne tornavo a casa. Ma il medico iniziò a prolungare gli incontri, a salutarmi col bacetto, a darmi abbracci imbarazzanti. Un giorno mi diede l'appuntamento così tardi che quando entrai nello studio incrociai la sua segretaria che se ne stava andando. Eravamo soli. Lui subito si è avvicinato, mi ha messa con le spalle alla scrivania e si è strusciato su di me. Fortunatamente, invece di impaurirmi, l'ho spinto via. È rimasto impietrito, 
non se l'aspettava. Chissà che fine ha fatto la sua segretaria».

3. La giornalista

«Avevo 22 anni, studiavo filosofia e volevo fare la giornalista. Ero fidanzata con un ragazzo che aveva un amico, di una ventina d'anni più vecchio di me, che occupava un'importante posizione in un quotidiano. Con il mio ragazzo e questo signore ci si ritrovava quasi tutte le sere a mangiare in una trattoria sotto casa. Si scherzava, si beveva, si suonava e io, frivola e spavalda, non esitavo a blandire il mio mentore con giochetti seduttivi. Tutti vedevano, tutti ridevano, non interessava a nessuno. Quest'uomo mi fece qualche favore: mi caldeggiò al caporedattore della cronaca cittadina, con cui già collaboravo, e qualche volta mi corresse gli articoli. Un giorno, in trattoria, sotto dettatura degli amici e per gioco, gli scrissi su un tovagliolo di carta che sarei stata debitrice di un favore a sua scelta per le gentilezze che mi concedeva. Quel tovagliolo me l'ha ritirato fuori la sera in cui mi invitò a cena per mostrarmi, chiuso tra pollice e indice della mano, la bozza di un contratto d'assunzione del giornale pronto da firmare. A patto che. Poi sono diventata giornalista lo stesso».