Vanno, vengono, ogni tanto si fermano, come le nuvole di De Andrè. Sono i miei figli. Tre, tutti teoricamente adulti, laurea magistrale i più grandi, triennale la piccola che ancora studia. Tutti e tre ancora in casa, tanto ingombranti quanto quasi sempre assenti, o per meglio dire impegnati in un incessante vai e vieni: gli Erasmus, un tentativo d'indipendenza fallito in poche settimane, i lavori saltuari e senza orario fisso, le cene di gruppo quasi sempre da un'altra parte, oppure da noi quando io sono assente, i pernottamenti dall'amore di turno hanno progressivamente cambiato le abitudini familiari e la stessa fisionomia della casa. Spariscono per sempre pentole prese a prestito per cucinare altrove ragù succulenti, il dentifricio e l'adattatore elettrico per il ferro da stiro con presa tedesca. Compaiono invece, negli armadi dalle ante sempre spalancate, o sugli schienali delle poltrone, giacconi, magliette e persino lenzuola che non riconosci. E c'è sempre uno zaino abbandonato a terra per settimane, aperto e semipieno.

«Cos'è 'sta roba? Sarà da lavare!». «Non ti preoccupare, ci penso io». I primi tempi delle loro indipendenze, a ogni minima trasferta il mio cuore di madre era in allarme. Ecco, ci siamo. È solo un Erasmus, ma metti che s'innamora d'uno spagnolo e decide di restare… Un lavoro di sei mesi a Berlino, vuoi che poi torni indietro, in questa Italia? Tante notti di fila a casa della nuova ragazza che, lei sì, abita da sola, saranno il prologo d'una cosa seria? Invece no. La piccola s'era innamorata temporaneamente d'uno spagnolo che appena poteva la raggiungeva a casa nostra. Il berlinese è tornato in Italia, tra l'altro lamentandosi dell'assenza di lavanderie di quartiere e di tagli di carne idonei a cucinare un brasato come si deve. La nuova ragazza era solo "un'amica". E il cumulo dei molti lavori a termine che i miei ragazzi svolgono con impegno, stage in ufficio legale, barista, videomaker, ripetizioni, non produce un reddito sufficiente per andare a vivere da soli, ammesso che lo desiderino davvero (cioè, il più grande ci ha provato, s'è trasferito nell'ammezzato di un amico che nel frattempo stava a casa di una ragazza, ma appena sveglio tornava da me col computer e senza il dentifricio e l'adattatore: «Qui c'è più luce per lavorare»).

Perciò restano, ma il loro non è proprio un restare a casa, è piuttosto un accamparsi provvisorio a tempo indeterminato (l'unica cosa a tempo indeterminato che esista nelle loro vite) che produce un caos destinato a cristallizzarsi nel tempo; un avanti e indietro a orari imprecisati, la luce che s'accende in piena notte, la chiave nella toppa mentre stai per scolare ottanta risicati grammi di spaghettini al dente, lo sguardo di disappunto se per caso ti fai sorprendere sdraiata sull'ambitissimo divano con un libro tra le mani: «Mamma, ma stai sempre a casa?». La maggior parte dei miei conoscenti coetanei con figli, ormai vive così: si sente più spesso parlare di figli che ritornano – «Sto andando a comprare un armadio nuovo, che il suo vecchio era troppo piccolo» – che di figli che se ne vanno.

Per noi era diverso. Noi uscivamo una volta per tutte. Era un vero trasloco, con tutto il peso simbolico della faccenda: gli scatoloni coi libri e i dischi, i poster staccati dai muri, lo stereo, i vestiti, portavamo via le nostre cose e ci lasciavamo alle spalle la malinconia di una separazione. Lasciavamo un buco e una camera da imbiancare di fresco. Una alla volta, io e mia sorella abbiamo svuotato le nostre stanze e nel giro di un paio d'anni i nostri genitori si sono trasferiti in un appartamento più piccolo. Per loro si trattava di elaborare un vero e proprio lutto, appena alleviato dalla consuetudine del pranzo domenicale in famiglia che noi, soprattutto i primi tempi, cercavamo in tutti i modi di scansare. Ricordo ancora la paura di comunicare a casa la decisione di andare a vivere da sola, o meglio con un'amica. Avevo 24 anni e un contratto d'assunzione in tasca. Non ho mai pensato che quell'uscita di casa fosse un esperimento e che sarei potuta tornare indietro. Le nostre madri facevano un po' le vittime, si lamentavano molto per via della sindrome da "nido vuoto", ma in realtà prendevano a viaggiare, s'iscrivevano a corsi di qualcosa, godevano nel rientrare tardi sapendo di trovare la casa come l'avevano lasciata, tendenzialmente ordinata, le luci spente e quattro giri di mandata alla porta.

Per quel che mi riguarda, io ho preso da tempo una decisione: se non posso lagnarmi del nido vuoto, eviterò almeno di subire la sindrome del nido pieno. Tutta questa provvisorietà a tempo indeterminato ha i suoi vantaggi. Mi fornisce l'alibi per fregarmene degli schizzi di dentifricio sullo specchio del bagno e dei maglioni abbandonati, del servizio di bicchieri belli ormai ridotto ai minimi termini, delle pentole che non torneranno indietro. Fregarmene di fare la spesa per numeri sempre imprecisati di commensali, in caso d'improvvisate spaghetti in bianco per tutti o il kebabbaro sotto casa. Se loro non riescono a entrare nell'età adulta, tanto vale che io mi adegui, tornando ragazza

(Storia di Maria Ida, testimonianza raccolta da Giovanna Rossetto)