Ogni newyorkese ha la sua versione della storia. Un personale codice di accesso al dolore, un fermo immagine che divide la vita in due: prima e dopo. Per Linda Mauer, quell'immagine è lei che cammina per strada nella più limpida delle mattine di settembre. Passa davanti a una vetrina, si specchia, poi sente un botto: lo sguardo si solleva e il film della vita si inceppa tra i suoi abiti leggeri riflessi sul vetro e il fotogramma della torre nord del World trade center che brucia come un fiammifero. Sua sorella Jill lavorava lì. «Sono corsa a casa ad aspettare la sua telefonata, per sentirmi dire: sto bene. Ma quella telefonata non è mai arrivata», racconta. Ha appena finito di correre la maratona in ricordo delle vittime, con il nome di Jill scritto sul pettorale. «Cerco di spingere questa cosa in fondo alla coscienza, ma il pensiero torna sempre là». 

Anche il pensiero del vigile del fuoco Adrienne Walsh, torna sempre . Alla pioggia di fogli bianchi dal cielo di Manhattan, ai colleghi che gridano «Correte!», ai pezzi di cemento che crollano. Poi la torre che si sbriciola e il silenzio, come quando nevica. «Non c'era più nessuno da soccorrere: erano diventati tutti polvere». I ricordi la inseguono. «È come una ferita su cui si è formata una crosta: quando penso che sia guarita, la crosta si stacca e la ferita ricomincia a sanguinare». 

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La ferita aperta nel fianco di Manhattan, invece, dopo 15 anni sembra chiusa: sulle macerie di Ground Zero, oggi sorgono il memoriale (due vasche scavate sul perimetro delle torri, con i nomi delle vittime incisi nel marmo) e il museo dedicato al ricordo dell'11 settembre; il vuoto aperto nello skyline è colmato dai 541 metri del One World Trade Center. La città va avanti, perché il futuro non aspetta. Ma la resilienza dei luoghi è più forte di quella degli uomini. Per questo Harry Roland tutti i giorni si presenta davanti alle vasche del memoriale. C'è chi lo chiama History man, chi "l'uomo del World trade center" e non capisci se sia una guida o un mendicante, ma se gli chiedi perché è lì, risponde: «Per non dimenticare quello che ho visto. Da allora, niente è più come prima. Non solo in America, ma in tutto il mondo». 

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È vero: nulla da quel giorno è stato più come prima. Per New York e per ciascuno di noi. Ogni zaino dimenticato in giro è diventato un pacco bomba, ogni bottiglietta d'acqua in aeroporto un potenziale ordigno, ogni Allah akbar un campanello d'allarme. «È cambiato il nostro modo di vivere e sono cambiate le nostre paure», spiega Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull'estremismo della George Washington University, al telefono dagli Usa. «Presentarsi in aeroporto ore prima del volo, togliersi le scarpe ai controlli e buttare la bottiglietta d'acqua ci sembrano ormai cose normali e c'è un'intera generazione che sta crescendo così. Eppure, prima dell'11 settembre, negli Stati Uniti potevi consegnare i bagagli direttamente sul marciapiede». Essere uccisi da un terrorista, dice, resta ancora infinitamente meno probabile che morire in un incidente stradale (una probabilità su 88 contro una su 69.000). Eppure ci fa più paura. «Perché la morte di Bin Laden, la crisi di al Qaeda e le primavere arabe ci avevano illuso che il terrorismo fosse, se non sconfitto, almeno gestibile: una faccenda di competenza della polizia e non più una minaccia esistenziale». 

E invece, nonostante i miliardi di dollari bruciati nella lotta al terrorismo (oltre 9 trilioni di dollari nel mondo, dal 2001: praticamente il triplo del pil della Germania), nonostante i proclami e le speranze, «qualcosa è andato storto», commenta Francesco Strazzari, professore alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa. «Perché dopo al Qaeda è arrivata l'Isis che dichiara di voler scatenare il terrore come in un film di Hollywood. E tutto è cambiato». 

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Come sia cambiato tutto, e perché questo non sia più «il terrorismo dei nostri padri», lo illustra Joby Warrick, national security reporter del Washington Post e autore di Black flags. The rise of Isis (il libro con cui ha vinto un Pulitzer e da cui Bradley Cooper produrrà una serie tv per Hbo). «Il terrorismo di oggi è profondamente diverso, rispetto a quello di 15 anni fa. Gli attacchi dell'11 settembre erano estremamente complessi: per organizzarli ci volevano mesi e una formazione specifica per chi doveva portarli a termine. Erano indirizzati a obiettivi strategici e miravano a fare il maggior numero possibile di vittime. Per lo Stato islamico, l'asticella è molto più bassa», continua Warrick da Washington. «Ai suoi leader vanno bene anche azioni più semplici, con valore strategico limitato, per cui non è necessario avere attentatori formati». Forse per strategia, forse per semplice opportunismo. Se potesse, forse anche l'Isis ambirebbe ad azioni così spettacolari. Ma già nel 2002 Khalid Shiekh Moahammed, l'architetto dell'11 settembre, intercettato, diceva che era diventato quasi impossibile perché gli occidentali avevano imparato a difendersi. Così per l'Isis è più semplice incoraggiare i simpatizzanti a compiere singoli atti di terrorismo, senza bisogno di coordinarli dall'alto. «Non sono in grado di compiere attentati di massa, ma sono bravissimi a diffondere l'orrore e la paura», osserva Warrick. L'Europa, gli dico, sembra più colpita degli Stati Uniti da questo tipo di attacchi. «Gli sforzi per la sicurezza interna compiuti dagli Stati Uniti hanno protetto gli americani», risponde. «La rete di trasporti è più sicura (nell'ultimo anno, ha dichiarato a The Atlantic Jeh Johnson, segretario della sicurezza interna, al controllo bagagli negli aeroporti americani sono state intercettate 2.500 armi, di cui l'83 per cento cariche, ndr) e i lavori di intelligence più efficaci. Ma il mondo in sé è un posto meno sicuro, anche a causa delle decisioni prese dopo l'11 settembre, come la guerra in Iraq». 

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L'Europa è in prima linea per una semplice ragione: è più vicina al Medio Oriente e colpire qui è più facile. «Di certo gli europei dovranno abituarsi a misure di sicurezza che ridurranno ancor di più la loro privacy», prevede Warrick.  «Controlli come in aeroporto diventeranno la norma anche allo stadio, al cinema, negli hotel. Ma se pensiamo che questo basti a proteggerci, sbagliamo». E allora? «Per le persone normali, l'importante è evitare il panico. E non dimenticare che cosa sono i terroristi: non giganti ma codardi che attaccano gli innocenti, le donne, i bambini compresi gli altri musulmani. L'Isis potrà compiere atti di violenza, ma non minacciare i nostri valori. A meno che non siamo noi a dar loro questo potere».