All'ultimo festival di Cannes ha suscitato molta curiosità. In effetti, Il condominio dei cuori infranti (ora nelle sale) è un film sui generis. Primo perché il regista è Samuel Benchetrit, affascinante scrittore 40enne, ex compagno di Marie Trintignant e di Anna Mouglalis, capace di manovrare con la stessa abilità cinepresa e penna. Poi perché la pellicola trasforma quella che avrebbe potuto essere la classica storia degli inquilini di un palazzo in un racconto surreale, leggero come una piuma, ambientato in una periferia straniante. E non ultimo perché una degli interpreti è l'iconica Isabelle Huppert. Il che significa che il film è sofisticato, particolare, très intello. Gioca sul non detto, sul mistero, come la Huppert in ogni intervista. Provare a chiederle qualcosa sui suoi tre figli, suo marito (Ronald Chammah) o le sue passate relazioni (negli anni '80 è stata legata a Daniel Toscan Du Plantier, grande capo della Gaumont) significa farla chiudere in un rigoroso silenzio. Meglio partire dal film.


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Isabelle Huppert in una scena del film Il condominio dei cuori infranti, di Samuel Benchetrit.

Qual è stata la sua prima reazione quando ha letto la sceneggiatura?

Mi è venuta voglia di accettare subito. I dialoghi erano meravigliosi, poetici, divertenti, minimalisti. Si vede che Samuel è uno scrittore. C'è qualcosa che ti cattura.

Provi a definire cos'è...

Tutto ciò che è l'inatteso nella vita, ciò che può nascere da piccolissime cose, dettagli, dal caso. Il film è fatto di atmosfere: i colori delle periferie, il vuoto delle loro strade, il cielo sempre più o meno uguale, i rumori…

Chi è Jeanne Mayer, il suo personaggio?

È un'attrice che non ha più voglia di esserlo. Qualcuno che si è arenato in questo condominio, che ha tagliato i ponti con la vita. Qualcuno che, proprio a causa del suo mestiere, ha un passato ancora visibile, ma che vuole dimenticare.

Lei nel film incontra Charly, il figlio 17enne del regista. Che tipo di coppia siete?

È buffo perché non abbiamo affatto la stessa età, ma in breve tempo, diventiamo davvero un po' come una coppia. Non c'è nulla di materno nel rapporto che si sviluppa tra di noi, anche se lo spettatore subito pensa a quello.

Sì, ma il monologo che lei recita guardando in macchina è tutto sulla maternità…

È vero, ma è un discorso sull'amore anche in senso lato, sul femminile, sul sentire delle donne. Sono parole che soltanto una donna conosce.

Cosa c'è di lei in Jeanne Meyer?

A tutti capita di attraversare un tempo di sospensione, di voler rompere con una parte di sé. E forse a un attore più che ad altri.

Lei ha detto che recitare è come una terapia psicanalitica. Conferma?

No, questo di solito lo dicono gli attori. Come se a esplorare certe parti di sé uno alla fine non capisse più bene chi è. No, io quello che so, lo so, e viceversa. Direi che nella vita sono assolutamente normale e la mia parte di follia la confino sullo schermo.

Però in analisi c'è andata, per sei anni, l'ha raccontato una volta a Paris Match

Sì, quando ero più giovane.

Ha anche detto di soffrire di claustrofobia…

Se resto chiusa in un ascensore ho veri attacchi di panico.

Sa che è famosa perché non racconta mai nulla di sé?

Suppongo che il tacere nutra il mio mistero. Ma l'essere silenziosa è un talento che mi viene da mio padre.

Suo padre era un imprenditore, sua madre un'insegnante e una pianista. Da lei cosa ha preso?

La curiosità, la voglia di conoscere e una certa impazienza.

È anche avventurosa: ama lavorare con nuovi talenti…

Scelgo buoni ruoli in buoni film, non sono qui per aiutare nessuno. La mia motivazione è lavorare con registi interessanti, conosciuti o no fa poca differenza. Certo, se mi chiama Haneke non leggo neppure lo script.