Sul red carpet del Festival de la Comédie di Monte-Carlo Gabriele Muccino appare finalmente raggiante: elargisce sorrisi a tutti, stringe a sé la moglie, lasciando che il calore del pubblico lo avvolga. Per un momento quella sua aria stanca, che solitamente si trascina dietro, sembra averlo abbandonato. D'altronde Muccino non poteva desiderare una rimpatriata migliore: il festival di Montecarlo gli ha assegnato il Monte-Carlo Film Festival Award e nelle prime due settimane di programmazione il suo nuovo film A casa tutti bene, con Claudia Gerini e Pierfrancesco Favino, si è imposto al BoxOffice dando la polvere a colossi commerciali come The black panter. Dunque, un vero e proprio bentornato a casa per un regista che, nel 2012, aveva deciso di rimanere a vivere e a lavorare in Usa.

Spesso si parte per ritrovare se stessi. All'epoca, nella sua decisione di lasciare l'Italia, c'era in gioco qualcosa di ben più grande del salto lavorativo?

C'era sicuramente l'ambizione professionale di realizzare qualcosa che andasse oltre a quello che avevo già fatto, con molto successo, in Italia. Tuttavia trasferirmi in America è stata anche un'esperienza evolutiva: vivere in una situazione completamente diversa, governata da logiche differenti da quelle a cui siamo abituati, ti permettere di crescere, di conoscere te stesso, di capire quali sono i tuoi limiti e fino a che punto puoi spingerti.

Qual è dunque il bilancio esistenziale di questa esperienza americana?

Sotto il punto di vista lavorativo, ho toccato con mano la mia solidità professionale e la mia competitività: in un mondo di leoni, sono diventato leone a mia volta. Sinceramente non sapevo di poter essere così abile, anche diplomaticamente, nel diventare imprenditore della mia arte: sono riuscito a fare delle cose incredibili. Ho visto e conosciuto persone di tutti i tipi, ho lavorato con grandissime personalità e talenti. Questa straordinaria crescita artistica si è però accompagnata a una decrescita della mia convivialità e della mia gioia di vivere. In Usa la convivialità non è un elemento considerato necessario. Per esempio, se si esce fuori a cena a nessuno dei commensali sfiora il pensiero di fermarsi a chiacchierare una volta terminato il pasto: semplicemente, si chiede il conto e si torna a casa. Noi italiani, invece, ceniamo proprio per avere il dopo cena. Tutta la nostra vita, forse, è un gigantesco dopo cena. Il vivere, il ridere insieme, sono fondamentali. Oltreoceano invece nessuno si rivela: sono persone implose e indossano continuamente una maschera che è asfittica.

Quando ha iniziato a sentire maggiormente la nostalgia dell'Italia?

Negli ultimi quattro anni. L'avvento di piattaforme di qualità come Amazon e Netflix ha mandato in crisi il sistema hollywoodiano: registi e produttori non sanno più bene dove andare, cosa fare, finendo per puntare, in modo quasi compulsivo, su franchising, reboot, remake.

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Courtesy Photo
Gabriele Muccino insieme a Pierfrancesco Favino sul set di A casa tutti bene

Sta dicendo che oggi conviene scommettere sull'Europa, piuttosto che sull'America?

Per il cinema d'autore, sì: vale la pena scommettere su quei Paesi dove puoi girare un film con il tuo linguaggio, senza pensare ai competitor… Questo film l'ho fatto a modo mio, in massima libertà ed è andato bene. Inoltre dimostra che il cinema italiano non è affatto morto: esiste ancora un pubblico forte che è pronto a tornare in sala, laddove il film regali emozioni. La vera leva sono, e restano, i sentimenti.

Il lavoro è l'unica ragione che l'ha spinta a lasciare l'America?

Se ho deciso di venire via dagli Usa è anche per l'asfissia emotiva che si respira in questi luoghi. In America nessuno è davvero amico di nessuno, tutti sono licenziabili e vengono dimenticati e sostituiti in un attimo. Questo cinismo esistenziale è molto doloroso per l'anima: lo patiscono gli americani ma ancora di più noi italiani perché, a differenza dei primi, sappiamo che esiste una alternativa esistenziale.

Molti attori sostengono che recitare è come sottoporsi a una lunga seduta di psicanalisi. È così anche per la regia?

Più che da una necessità di psicanalisi, il regista è spinto dall'esigenza di farsi specchio della società, degli uomini e sicuramente anche di se stesso. Si desidera chiarire alcune dinamiche esistenziali, per dare loro un inizio e una fine. La vita non prevede infatti una soluzione definitiva alle cose, se non quella finale che nessuno di noi vorrebbe mai incontrare (la morte, ndr). Tutto quello che gravida intorno a noi è sempre incompiuto, momentaneo. La drammaturgia ti permette invece di dare una compiutezza, anche solo momentanea, ai personaggi: di chiarirli.

Il film si intitola A casa tutti bene: vale anche per la sua vita personale?

Le rispondo esattamente così: A casa va tutti bene. Un bel selfie con i parenti, e via (ride, ndr)

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Gabriele Muccino e il cast di A casa tutti bene