Bebe Vio ci scherza su, ma fino a un certo punto: «I miei genitori mi ricordano sempre che devo rimanere con i piedi per terra: e se lo dicono a una come me...», racconta non senza un filo di ironia, alludendo divertita alle sue protesi alle gambe. Però, in fondo, sembra essere proprio questo il segreto del successo della celebre campionessa paralimpica di scherma: avere attorno una famiglia e degli amici che ci tengono così tanto a te da dirti quello che non va. E lo fanno persino dopo una gara di scherma, l'incontro con Barack Obama o la presentazione stampa dell'attesissimo talk show La vita è una figata, in onda dall'8 ottobre 2017 ogni domenica alle 17.45 su Rai Uno, durante la quale tutti la indicavano come modello di vita da imitare. Perché i complimenti, pur meritati, possono essere difficili da gestire. E Bebe lo sa.

Come ci si sente, a 20 anni, a essere considerati un esempio da imitare?

È strano ricevere tutti questi elogi. La cerchia di cui mi circondo è però composta da persone che mi vogliono veramente bene e che, proprio per questa ragione, sono i primi a dirmi quando sbaglio. Per esempio sono sicura che, appena uscita da qui (dalla presentazione stampa di La vita è una figata, ndr), i miei mi faranno notare che ho detto troppe parolacce o che potevo rispondere diversamente ad alcune domande. Sono circondata da persone sincere, che mi ricordano quali sono le vere priorità. Inoltre, essendo io un'atleta, il complimento a cui tengo di più è quello sportivo che si conquista in pedana.

Cosa conta, adesso, per Bebe Vio?

Prima di tutto il mondiale di scherma, che si svolgerà dal 7 al 12 novembre 2017 a Roma. Poi la scelta del corso universitario e, non ultimo, l'esame della patente.

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E la tv? Il direttore di Rai Uno ha detto che vorrebbe bissare l'esperienza con lei l'anno prossimo.

La vita è una figata è stato un gioco, peraltro bellissimo, e tale resterà. Non intendo realizzare una seconda stagione del programma perché adesso devo pensare alle cose serie: il mondiale, lo studio e la patente.

Lei è la solarità in persona. C'è però qualcosa che la fa andare su tutte le furie?

Quando dicono che io riesco a reagire perché sono io. Non è così. Forse il problema è che i ragazzi vivono i sogni come qualcosa di lontano da loro, da tenere nel cassetto. Per questo preferisco ragionare per obiettivi: l'obiettivo è un traguardo che hai ben in testa, per cui ti dai da fare e fai persino il conto alla rovescia per raggiungerlo.

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La sua paura più grande?

Quella di tutti gli atleti: il timore di dover smettere, un giorno, di praticare sport e di non poter quindi più provare quella che è l'emozione più grande, ossia raggiungere un obiettivo e vincere. Ho un bisogno quasi morboso di questa emozione. Sinceramente, non so come facciano a vivere le persone che non fanno sport.

Di tutte le esperienze che ha vissuto, dall'incontro con Obama alla dedica di Jovanotti, quale le è rimasta maggiormente nel cuore?

Sarò monotona ma... le Olimpiadi di Rio. Resto un'atleta: vivo per lo sport.

Lo sport l'ha aiutata a superare molti momenti difficili della sua vita. Il dolore solleva però anche domande esistenziali, interrogandoci nel profondo. In questi anni lei ha percorso anche un cammino spirituale?

In passato ero molto credente: ho fatto gli scout cattolici, servivo in chiesa come chierichetto e ho studiato dai salesiani. Poi, dopo quello che è successo, ho iniziato a chiedermi: perché a me? Oggi non mi sento di definirmi una cristiana doc perché non vado a messa, non prego alla sera. È più giusto dire che mi sono creata una mia religione: vedo Dio nelle cose belle. Quando ero dai salesiani don Pippo mi aveva proprio suggerito di vedere e cercare Dio nelle cose che mi rendono felice. E così ho fatto. Per me le cose belle sono lo sport e la famiglia. Non ho quindi un mio Dio ma ho la mia mamma e il mio papà e so che posso credere in loro.