«Sento che sarò una pessima moglie, ma non ti arrabbiare: ti amo alla follia e sono molto sexy». Una promessa di matrimonio che suona come una minaccia e una solida stretta di mano: così, in A piedi nudi nel parco di Gene Saks, una giovanissima Jane Fonda suggellava la luna di miele col neosposo Robert Redford. Prima di chiudersi con lui per sei giorni in una stanza dell'Hotel Plaza. Era il 1967. E forse per via dell'incanto irradiato da quella luminosa coppia di matricole hollywoodiane, tutto di quella storia sembrava vivido e plausibile: l'alchimia fisica, l'umorismo cameratesco e i tafferugli sentimentali, tutto tracimava fuori dalla finzione dello schermo, compreso il fatto, evidente quanto increscioso, che quei due insieme non sarebbero mai riusciti a starci... ma nemmeno troppo lontani. E se le battute di Jane non valevano davvero come voto coniugale, erano quanto meno la promessa di un lungo cammino su strade parallele.

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Robert Redford e Jane Fonda ai tempi del film Il cavaliere elettrico.

Sicché non stupisce che, 50 anni dopo, nella 74ma edizione della Mostra del cinema di Venezia che già sfiora la perfezione con la scelta di un madrino avvenente e spiritoso come Alessandro Borghi e di una presidentessa di giuria che ha la grinta e lo smalto di Annette Bening, i Leoni d'oro alla carriera annunciati siano la coppia di fatto Fonda & Redford. Cosa che ci autorizza a prolungare l'illusione di un lieto fine possibile tra i due leoni del cinema, spiriti affini e ruggenti, a Hollywood come nella società civile americana. Come ha sottolineato il direttore della Mostra Alberto Barbera: «Poche star hanno avuto una vita contraddistinta da atteggiamenti risoluti e fieri come quelli esibiti da Jane Fonda nella sua carriera, segnata da passioni intense, all'insegna dell'indipendenza da ogni forma di conformismo, con una generosità toccante e vulnerabile». La stessa cifra passionale e anticonformista che condivide con Redford, «attore, regista, produttore, ambientalista, ispiratore e fondatore di quel brillante esperimento cinematografico chiamato Sundance: sia di fronte che dietro alla macchina da presa, sia quando ha difeso la causa del cinema indipendente o quella del nostro pianeta, Redford ci ha accompagnato attraverso 50 anni di storia americana con una combinazione di rigore, intelligenza e grazia che resta insuperabile».

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Jane Fonda in una manifestazione contro la guerra in Vietnam.

Il resto è tra le righe delle rispettive biografie: entrambi presto orfani di madre (Jane perse la sua a 12 anni, Robert a 20), entrambi attori riluttanti, distratti da altre passioni del mondo eppure protagonisti di film che han fatto epoca, e di vite molto diverse. Il bel Bob in autoesilio, tra corvée d'attore e cubitali prove da regista, nella sua riserva indiana sui monti dello Utah, diviso tra due mogli e tre figli (quattro con Scott, morto a cinque mesi); tra sciate, cavalcate solitarie e corse in automobile; perpetuamente a disagio per le ricadute della sua avvenenza, l'unica cosa che non è mai riuscito a controllare: «Ho interpretato stupratori, pazzi», ha dichiarato a Esquire Usa, «calarmi nel personaggio e risultare convincente era una questione di orgoglio».

E tuttavia continuavo a sentire commenti sui miei capelli biondi: è una gabbia

Lei, figlia d'arte in eterno conflitto col padre Henry, a ogni nuovo amore si reinventava, dribblando traumi antichi (il suicidio della madre, una violenza subita da bambina): da sensuale e siderea Barbarella con Roger Vadim, a pacifista Hanoi girl con l'attivista Tom Hayden, da regina del fitness a zarina in tailleur pastello accanto al mogul dei media Ted Turner. Satelliti in rotta di collisione periodica: «Abbiamo cominciato nel 1966 con La caccia, con Marlon Brando», ricorda Redford. «Jane era mia moglie e fra noi è subito nato un legame speciale. Non ci siamo più persi. L'ho voluta accanto anche in A piedi nudi nel parco e Il cavaliere elettrico». Dove lui è un cowboy frustrato e addomesticato e lei una giornalista nevrotica. Tra loro la dinamica è ancora quella: lei straripante e ribelle, lui irresistibilmente legnoso, chiuso in quel contegno ghiacciato che hanno certi uomini introversi. E che solo donne come Jane sanno sciogliere, magari con una danza cambogiana, come nel film.

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Robert Redford con gli studenti del Sundance Institute.

Un'opera di seduzione che nella vita non le è riuscita. Eppure Jane non ha mai smesso di pensare a Robert. «Stanotte ho sognato il mio amico Bob», scriveva nel 2009 sul suo blog. «Mi è apparso proprio quando avevo bisogno di lui. Ho notato quanto fosse allegro e questo mi ha reso felice». E a ogni film – ha confessato pochi mesi fa a Ellen DeGeneres in tv – si innamorava di lui: «Non riuscivo a evitarlo, mi bastava cadere nei suoi occhi blu per dimenticare le battute, per non parlare dei baci». È successo di nuovo, ha ammesso, con l'ultimo film girato insieme, Le nostre anime di notte, che Netflix presenterà in anteprima proprio a Venezia.

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Robert Redford e Jane Fonda in Le nostre anime di notte.

«Ma se in principio andavo in panico ogni volta che lui si chiudeva in uno dei suoi proverbiali silenzi, ho capito di essere cresciuta quando, di fronte all'ennesimo mutismo, gli ho piazzato una pacca sulla spalla esclamando: "Eddai, Bob!"». E Bob, ci piace pensare, deve aver finalmente sorriso, nel suo modo elusivo, a Calamity Jane, così l'ha sempre chiamata. Di sicuro ricorda di averle detto: «Ti rendi conto di quanto stiamo diventando vecchi? Siamo entrambi nonni, ma è stato divertente ballare ancora con te». Nel film sono due vicini di casa, entrambi vedovi, un giorno lei bussa alla sua porta e gli propone di dormire insieme, «solo per parlare». Ecco, confondendo ancora una volta la magia del cinema con la vita, a noi romantici basterebbe ripiegare su questo happy end in sordina, chissà poi che non finisca come quella volta al Plaza. Più probabilmente, la banalità del quotidiano li spingerà alla deriva verso il solito epilogo. Come nel Cavaliere elettrico: lui che s'allontana a cavallo. Lei che osserva la sua sagoma sfumare all'orizzonte.