In fondo c'è sempre una logica di ferro dietro le scelte degli elettori. Chi si stupisce del successo travolgente della candidata di M5S Virginia Raggi al primo turno non vive a Roma. Non cammina per strada, non rasenta i cassonetti, non fa la fila in municipio. Non assiste, quotidianamente, al collasso di una capitale, la nostra. Una città della quale, non esagero, ci si vergogna quando si invitano amici forestieri. 

Sulle macerie di questa metropoli spolpata dall'indifferenza e dal malaffare, dalle clientele e mafie locali, è salita questa giovane donna di 37 anni, avvocato, sposata con un figlio. Dichiara un reddito annuo di 25.000 euro, lo stipendio di un'impiegata, e ostenta in tv una distaccata normalità. Ha qualche discutibile vezzo: «Mi viene da ridere», risponde spesso ai giornalisti che le pongono domande sgradite. Ma anche una sicurezza piuttosto impressionante per una novizia della politica. Stretta di mano decisa, uso accurato del "lei", una precoce malizia politica nell'aggirare le questioni più spinose. 

Il suo programma è di buon senso, non così diverso sulla carta da quello degli avversari. Ma la credibilità della sua offerta politica è moltiplicata dal fallimento dei predecessori. Se la destra di Alemanno ha fatto a brandelli Roma e il Pd di Marino non è stato capace di riscattarla, perché i romani avrebbero dovuto votare diversamente? Ora c'è il ballottaggio con Giachetti, politico onesto e non coinvolto nel disastro delle amministrazioni precedenti. Ma la vittoria di Virginia è quasi certa. Poi, un anno per governare Roma e risollevarla dall'abisso. 

Ai suoi cittadini basterebbe poco − via la monnezza dalle strade, autobus in orario, un po' di decoro urbano −per vedere nel nuovo sindaco un novello Winston Churchill. Roma è l'appuntamento decisivo per il movimento di Grillo. Se la risolleva, potrebbe seriamente vincere le prossime elezioni politiche. Se delude, l'effetto boomerang sarebbe micidiale. Il doppio taglio affilato e crudele di ogni regola dell'alternanza.