Azzam ha nove anni e lavora in una fabbrica di jeans turca. È siriano, fuggito dalle bombe. Assieme ai suoi tre fratelli, alla mamma e al papà, ingrassa l'industria tessile locale faticando al nero 12 ore al giorno.  Pantaloni, t-shirt, scarpe. Dai capannoni di Gaziantep, città vicina al confine siriano, esce l'abbigliamento per le grandi catene globali o le bancarelle low cost. Dietro ogni abitino, dietro ogni stringa o bottone, c'è un sistema di sfruttamento feroce e capillare. 

Chi è fuggito dall'Isis o dai barili esplosivi di Assad ha bisogno disperato di guadagnare per sopravvivere. Così la catena industriale spolpa quei corpicini. Si entra bambini, si esce adulti. Azzam lo spiega così a Piazzapulita: «I miei fratelli da grandi vogliono fare il medico o lo scienziato. Io so che dovrò aiutare la mia famiglia, quindi resterò a cucire qui». 

Rimanere vuol dire bruciarsi le mani con l'acido della concia, oppure dipingersi le dita di colorante blu. Un blu tossico, nocivo e penetrante.  Sono migliaia i bimbi sfruttati dalla Turchia. Il loro lavoro costa solo 40-50 dollari al mese. Basterebbe un raid della polizia, o dell'ispettorato del lavoro turco per spezzare le loro catene e arrestare gli sfruttatori. Ma nessuno li ferma.               

Tutti sanno. Tutti comprano i vestiti fatti dai bambini. L'Europa ha promesso 6 miliardi alla Turchia. In cambio il presidente Erdogan si è ripreso i profughi giunti sulle coste della Grecia. Tutti rimpatriati, minori compresi. Il prezzo dell'accordo è una generazione di piccoli sottratti alla scuola e ammanettati a una macchina da cucire. Così il governo di Ankara aumenta il Pil nazionale con vestiti a basso prezzo. E la guerra, come sempre, moltiplica i profitti.