Sguardo torvo da bullo, andatura caracollante, giacca svolazzante e cravattona rossa troppo lunga. Ecco Donald Trump, il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America alla cerimonia d'insediamento. Se ne frega del rito, è chiaro. Vuole rompere gli schemi e far subito vedere chi comanda. Pronuncia un discorso perfettamente coerente con le parole d'ordine della vittoriosa campagna elettorale: potere al popolo, compra americano, affitta americano, proteggi i confini. Protezionista, populista, prosa semplice e diretta.

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A pochi metri di distanza, Barack Obama ha lo sguardo cupo e le labbra serrate. È chiaramente preoccupato dai toni di Trump. Che racconta l'America senza luce né colori, un ammasso di fabbriche arrugginite e malumori, un carnage, un massacro di lavoratori incazzati. Mai sentito un discorso più dirompente: l'insediamento del nuovo presidente contiene l'annuncio esplicito di una folle corsa contromano: The Donald dichiara guerra alla globalizzazione che è stata la Bibbia economica d'America e il cardine delle sue relazioni internazionali. Da affarista qual è, probabilmente adotterà in politica criteri di stretta convenienza economica: amico di chi non minaccia le tasche dell'America, come la Russia di Putin e Israele, avversario di chi compete sul mercato dei consumatori e dei salari come la Cina, il Messico e l'Unione Europea. Magari stringendo alleanza con la Gran Bretagna fresca di Brexit e di nuovo parte integrante di quell'anglosfera che potrebbe ridisegnare i confini dei nuovi poteri mondiali.

Il gabinetto di collaboratori che lo consiglia è eterogeneo, l'era Trump nasce sotto il segno del caos. Non si conosce la classe dirigente che governerà col presidente, né l'esito finale di questo enorme cambiamento. Ma chi conosce The Donald assicura che il caos sia deliberato e punti a concentrare nelle mani del presidente quanto più potere possibile.