Sono così ingenua che pensavo l'uomo debole fosse un'invenzione di questo secolo. In quello scorso ero così giovane che pensavo tutte fossero come me: in attesa di telefonate che non arrivavano. Pensavo fossero cambiati i costumi, che a far diventare loro quelli che elemosinano attenzioni e noi quelle che sbuffano fosse stato un mutamento sociale. E invece tra adulti ha sempre funzionato così, anche nel Novecento. La percezione me l'aveva fornita Anne Pingeot, pubblicando le lettere di François Mitterrand. Solo quelle di lui, senza risposte di lei. Un trucco con cui anche il più anaffettivo dei cowboy sembrerebbe sentimentale: se non leggiamo mai le risposte, tu sei uno che parla da solo, ovvero il più disastrato caso di innamorato patetico che esista in natura e in letteratura. Pingeot è furba a celarci le proprie lettere: all'inizio della storia era una ragazzina, magari era svenevole quanto lui, che le scriveva «sono sei ore che non ti scrivo», come un liceale su WhatsApp; o concludeva una lettera d'una decina di fogli (carta intestata del Parlamento) con un «Tu ti chiami Anne, mia Anne, e io ti amo» degno d'un provinando di Sanremo giovani.

L'uomo che parla da solo, format editoriale dell'anno, prosegue con Quando verrai sarò quasi felice, raccolta delle lettere di Alberto Moravia a Elsa Morante. Anche qui mancano le risposte di lei, e il caso è ancora più interessante di quello francese: Anne Pingeot ha scelto di non pubblicare le proprie missive, mentre quelle della Morante non esistono proprio, giacché Moravia le aveva buttate. Ora: conoscete un segno più certo che un uomo ci sia rimasto sotto? Nessuno è più vittima d'amore di quello che cancella tutti i segni del tuo passaggio dalla sua vita. Nel 1951 Elsa Morante aveva 39 anni. Era un'adulta: una che sa come far disperare il tapino con cui sta da quindici anni ed è sposata da dieci. Per esempio mollandolo in vacanza da solo e poi, quando lui si strugge di mancanza, sbuffando che quello di lui è «amore a dispetto», solo da lontano e se non ricambiato; come se lei non facesse esattamente la stessa umanissima cosa: «Vorrei tanto che tu fossi qui e ho tanto desiderio di baciarti e di fare l'amore con te. Ma tu a quanto sembra non provi questo desiderio se non quando parto e mi allontano da te», si lagna il tapino, perfetto cliché di vittima sentimentale. Le lettere di quel periodo sono uno strazio, povero Moravia: si sbatte perché lei sia candidata a premi letterari; le fa accurate descrizioni di quanto lei gli manchi (mi piace immaginare la Morante, annoiatissima da tanta svenevolezza, interrompere la lettura a metà); le sue cronache delle vacanze hanno a margine considerazioni da uomo-tappetino: «Può darsi che queste notizie ti ispirino addirittura la ripugnanza a venire qui» (la classica frase che la vittima dice per farsi rispondere «Ma no» dalla carnefice).

Persino dopo che si erano lasciati e quando stava già con Dacia Maraini, le lettere di Moravia alla Morante sono ancora scenate da amante disamato: «Non capisci niente e questo perché gli altri non esistono per te, esistono soltanto i tuoi sentimenti per gli altri, molto mutevoli e spesso poco lusinghieri». Sono così ingenua che credevo che «chi meno ama è il più forte, si sa» fosse un verso di canzonetta, mica una biografia della Morante.