C'è una parola che fatichiamo a pronunciare: la parola guerra. L'Italia sta entrando in guerra ma quasi non se ne parla. In Libia Isis si sta espandendo e ha già una capitale: Sirte, la città dove nacque e morì Gheddafi. Il governo libico, che dovrebbe essere la sintesi fra laici e islamisti, fatica invece a insediarsi fra liti tribali e rivalità militari. La comunità internazionale attende l'insediamento affinché si compia la piccola farsa della richiesta di aiuto: soltanto se lo chiederà Tripoli, l'intervento sarà legittimo (nella foto, un soldato fedele al governo di Tripoli controlla una casa bombardata a Bengasi).

Nell'attesa, nel deserto libico si moltiplicano le impronte degli scarponi. Francesi innanzitutto, ma anche americani, inglesi e italiani. Naturalmente tutti si affrettano a smentire, ma è cosa nota che i corpi speciali stiano già individuando gli obiettivi da colpire. Il tutto, ovviamente, in clandestinità. Alla luce del sole, invece, sono i decolli di droni americani armati di missili dalla nostra base di Sigonella. Abbiamo autorizzato Washington a utilizzarla solo per "finalità difensive": in pratica, se i corpi speciali Usa attaccano una postazione Isis e si trovano in difficoltà, dalla Sicilia arrivano i rinforzi.

Intanto, l'Italia testa armamenti, addestra soldati, calcola voli e trasferimenti via mare. Con un nemico dichiarato, il Califfato nero. E uno nascosto: la Francia con le sue mire espansionistiche sul petrolio della Cirenaica. La francese Total, non è un mistero, agogna nuove posizioni scalzando la nostra Eni. Il rischio più grande del conflitto libico è che si ripetano gli errori della guerra del 2011, quando per cacciare Gheddafi si consegnò il Paese al caos e ai fondamentalisti. Ma a restar fermi si rischia che Isis si rafforzi ancor più. Un bel rebus. Con l'Europa ancora divisa e la necessità di coordinarsi con gli americani. Gli stessi americani che, come dice Wikileaks, non si sono fatti scrupoli nello spiare a piacimento i nostri governanti.