Avevo 16 anni e mi ero incaponita su una foto. Era la foto di una modella bruna come me, ma bella, con un carré riccio e il ciuffo lungo che le ricadeva sulla fronte coprendole un occhio. Un riccio come usava in quegli anni di cattivo gusto militante e spudorato, dunque marmorizzato dalla lacca ed esagerato. Erano i magici Ottanta e ci sembravano belle robe di una bruttezza inenarrabile: non avendo più niente su cui ribellarsi e contestare, rovesciare le leggi dell'estetica doveva essere l'unica via rimasta per regalarsi un qualche perverso afflato libertario. Così, io che ho sempre avuto capelli superlisci, come insetti stecchiti, come spaghetti crudi, sognavo quel movimento spettinato e ribelle, come una forma di emancipazione.

 Il francese era la lingua della moda

Andava allora molto la permanente. Le testimonial erano Sarah Jessica Parker − in quell'era geologica in cui Sex and the city non era ancora neppure in nuce e il favoloso mosso naturale di Carrie un esperimento di diplomazia tricologica neanche immaginato dai coiffeur (allora i parrucchieri fighi si chiamavano così, il francese era la lingua della moda e dello chic, oggi che è subentrato il "cool" si chiamano tutti hair stylist) − e Baby. Frances "Baby" Houseman, alias Jennifer Grey, era la protagonista di Dirty dancing, film dell'87 che spiegava alle ragazzine di 17 anni come farsi l'animatore del villaggio aggirando l'ostacolo dei genitori segugi. I suoi erano veramente dei bigotti rompiballe, e la sua evoluzione da brava ragazza tutto studio e famiglia a svergognata pupa del maestro di mambo doveva per forza passare dalla permanente. 

Insomma, volevo quei capelli

Credo di essere l'unica femmina etero di quella generazione ad aver detestato Dirty dancing, e a non essermi presa nessuna cotta per Patrick Swayze (essendo allora nel pieno di un'infatuazione per Jack Nicholson, sempre stata gerontofila). Trovavo Baby veramente orrenda e gne-gne, con quel nome da maialino coraggioso (quello è Babe, lo so,  ma si pronuncia uguale), però la sua pettinatura sono certa che in qualche modo mi abbia influenzato. Insomma, volevo quei capelli. E visto che gli adolescenti sono pazzi, mi buttai. Stavo da schifo. Primo perché il ciuffo che mi ero illusa di soffiare via dagli occhi − un gesto così maliardo, così sexy − accorciato dal riccio a malapena arrivava al sopracciglio. Secondo perché, se nasci liscia, una ragione ci sarà. Madre Natura ha un certo occhio e non segue le mode. Pesca in un campionario a caso e dà. Il giorno stesso dell'autocondanna a riccia finta incontrai il tipo che amavo segretamente dal ginnasio. 

È il ricordo più bello della mia adolescenza

Mi fece due occhi che dicevano tutto. Entrai così ufficialmente e col look adeguato nel mio periodo blu: gli anni depressivi del liceo. Durò svariati mesi di studio matto e disperatissimo. Tornare liscia era impensabile e la mia mamma non mi dava i soldi. La permanente era già costata un tot. A giugno per fortuna tornai in me. Vacanze, buoni voti e taglio drastico. Se tanto lui non mi amava chissene: del mio cuore spezzato e dei capelli corti. Stavo da dio. E il giorno stesso − giuro! − lui mi chiese di metterci insieme. È il ricordo più bello della mia adolescenza. Una vittoria inaspettata, un tuffo al cuore che neanche la Cagnotto. Amori, dolori, fallimenti e successi passano sempre, per noi "ragazze", da uno specchio. E anche di questo parliamo in questo numero, che è interamente dedicato alla bellezza. Per ribadire un concetto basilare: la forma è sostanza, che ci si creda o no. Se ci sentiamo belle, tutto il mondo lo diventa. Non è uno sfizio, è uno state of mind.