La moda è per tutte. Embé? Si chiederanno perplesse le nostre giovani lettrici, come se avessi detto che i gatti miagolano e il burro ingrassa, cioè una verità di un'ovvietà sconcertante. E in effetti per chi è nata in piena era digitale e aveva dagli 0 ai 13 anni quando in Italia debuttavano le prime grandi catene low cost e Chiara Ferragni come brand non esisteva ma già provava faccette allo specchio e Steve Jobs s'interrogava sulle infinite possibilità dello smartphone decretando la fine della conversazione telefonica, la moda era lì lì per diventarlo, democratica. Del prima e del dopo non si sono rese conto, prese com'erano a gestire tempeste ormonali e nuove favolose applicazioni su Apple Store. A 18 anni la moda era già loro. Facile e fruibile sui siti dedicati, i blog, l'ecommerce, i temporary store, Snapchat, Instagram, Pinterest e Flickr.

Ma non è sempre stato così. Per noi ragazze dell'era analogica, la moda era per poche. La guardavamo incantate sulle riviste delle mamme, oppure al cinema e in tv. Ma non a Sanremo e non nei talk show, dove vestirsi bene non usava. Ci si vestiva e basta, con qualche lustrino e poche velleità. La prima ad averne all'Ariston fu Anna Oxa, che dimezzò il suo peso di colpo per riciclarsi da pioniera gender fluid in precursora della taglia 38. Però è a Carrie Bradshaw che dobbiamo tutto, l'indomita eroina di Sex and the City. È con lei che scoprimmo per la prima volta che si poteva dilapidare uno stipendio per un paio di scarpe firmate e uscire in tiro con top e tutù per incontrare le amiche, così, una sera qualsiasi, senza la scusa della grande occasione. Prima di lei non sapevamo neppure chi fosse Manolo Blahnik, poi ci siamo sforzate di scordarcelo, perché costava troppo e produceva sulle nostre libido lo stesso scorno di una débâcle. La moda non era per niente mainstream. Apparteneva alle star del cinema o alle signore della buona società. Persino Lady D, che pure nasceva aristocratica e si era imparentata con un futuro re, l'ha capito in ritardo che il guardaroba giusto può cambiarti la vita. La sua è divisa tra un prima e un dopo: i look castigati royal-style della fase principessa triste, e le mise da icona del jet set della fase Gianni Versace. La sua metamorfosi fu una lezione per tutte.

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Sarah Jessica Parker (a destra) sul set di Sex and the City.

Quando, in pieni Anni 80, chiesi a mio padre un paio di Timberland, lui mi rispose che "non si poteva". I soldi per lui servivano ad altro: viaggiare, studiare, comprare libri, pagare beni "di necessità". Difficile spiegargli che il concetto poteva avere una lettura variegata: niente a 15 anni mi sembrava più necessario di una cartella rosa con le api. Una compagna di liceo, Cecilia, non solo aveva quella, ma tutto il campionario zuccheroso di stoffe e ninnoli Naj Oleari, più il kit completo del perfetto paninaro: bomber, Moncler, yellow boot, felpa Best Company e polacchine Sebago. Una generazione di brandizzati. La prima della storia, la più viziata. La mia ribellione non fu ideologica, è solo che il pater non scuciva. Adesso che giovani influencer scialacquano fondi familiari per farsi selfie in total look, penso con tenerezza a come eravamo, ingenui e velleitari. Malvestiti senza saperlo, schiavi delle regole (mai il nero col blu, mai i fiori con le righe...), eppure liberi di sbagliare. Perché, in quell'analfabetismo generale, nessuno badava a quel che indossavi.

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Ora sì, tutti ci badano. Tutti ci tengono. Tutti di moda ne sanno moltissimo. E gli stilisti che si devono inventare? Niente. E infatti hanno deciso che adesso vale tutto: il lungo il corto il maxi il mini il nero totale e l'arcobaleno. I diktat della moda non vanno più di moda, è fashion icon chi sa creare, mixare, sperimentare. Il gioco è diventato davvero democratico. In termini di gusti e in termini di status. I bravi mescolano la borsa griffata con la maglietta da 5,90, la tuta dell'Adidas con il tuxedo snob. Vestirsi bene (o come gli pare) è diventato diritto universale. Pure per chi non porta la 38. Ché se la moda è bella perché è varia, tanto più bella è se variano i corpi che la portano a spasso. Le personalità che la raccontano. «Nel corso della vita ho imparato che ciò che è importante in un vestito è la donna che lo indossa», diceva Yves Saint Laurent. Un bel pensiero guida per il fashion issue del n. 11 di Gioia! in edicola questa settimana.

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