Quando io sono nata, mio padre non c'era. Era un venerdì 17 e mia madre entrò in sala parto da sola lanciando scongiuri e incrociando falangi di mani e piedi con scaramantico terrore. Questo non gli impedì di essere un ottimo padre, moderno e femminista seppur tarato sul vecchio principio d'autorità: studia, torna presto e resta illibata.
Trent'anni dopo, quando fu il mio turno di "sgravare" (parola orribile che ben esprime il togliersi un peso, in senso letterale), l'altra metà del corredo genetico c'era. Teso ma motivassimo a ottimizzare le 20 e passa ore di lezione preparto costretto a ciucciarsi per farmi all'uopo da "navigatore" in quell'assurdo viaggio che è la messa al mondo. Contrazioni, tettarelle, ossitocina, epidurale, pagliaccetti e tiralatte: niente gli fu risparmiato in quel delirio da coppie modello e gara al marito dell'anno che c'impartivano le ostetriche. Come se essere in due fosse più necessario per partorire che per concepire, ché a concepire oggi, in mancanza di un uomo, ci si può anche arrangiare da sé. Di tutto lo sforzo fatto per essere utile senza svenire, la bocca a fragola della nuova nata credo sia stata l'adeguato compenso. È bastato uno sguardo per vederlo rapito.
Stesso copione al momento del bis. Con il vantaggio di tre anni sul campo a schivare rigurgiti e spacchettare patelli, decrittare manuali d'istruzioni di pratici passeggini che si aprono da sé - ma solo nei manuali di istruzioni - partire in pieno agosto col bagagliaio che non si chiude, il parasole che non si attacca, l'usb che ruggisce in loop «issa issa issa la vela, gira gira gira il timone…», il tutto mantenendo titanico aplomb. Da allora a oggi gli ho visto fare di tutto a questa quota azzurra di casa, che inciampa maldestro tra valanghe di scarpe e impacchi di argille e olio d'argan, restringendo negli anni il suo spazio vitale, che ormai si riassume in due ante, un cassetto e barra provvisoria in subaffitto nella scarpiera del cambio stagione.
Ora che è padre di figlie adolescenti, vorrei assegnargli una medaglia al valore. Per tutte le volte che le ha accudite e curate, in totale parità, nutrite, coccolate, vestite, ascoltate, lanciate per aria e consolate. Portate e riprese. Pazientemente aspettate. Caparbiamente osservate per carpire il congegno recondito che le portava a sei anni ad alzarsi di scatto per passarsi il rossetto durante il ripasso delle tabelline, ad agghindarsi a otto da principesse per ricevere gli amici, a piangere a 11 senza motivo e mettere in piedi una sceneggiata «perché vuoi sempre più bene a lei». La medaglia al valore la merita soprattutto per il giorno in cui, mandato in missione dalla 13enne a prenderle d'urgenza gli assorbenti, le chiese smarrito su WhatsApp: «E come capisco che hanno le ali: se provo a lanciarli, volano?». La simpatia è un salvagente necessario.
Secondo una ricerca, negli ultimi 50 anni i nuovi padri hanno triplicato il tempo con i figli, puntando tutto sulla qualità. Complice la crisi generale che, dopo anni di lavoro extra moenia, li ha rifiondati tra le mura di casa a far job sharing con l'altra metà. Non sono ancora esemplari di serie, però il prototipo è in evoluzione. Quello di ultima generazione - i cosiddetti millennial - ci sta ormai così comodo dentro i vestiti da mammapapà, da non sentirsi neanche più defraudato. Ancora i pionieri di dieci anni fa, trovandosi al parchetto nei giorni feriali con nonni e tate di ogni età - in proporzioni di 1 a 6 - maturavano sogni di fuga e stragi. Oggi invece ci vanno per scelta al parchetto. Di lunedì. Alle 4. Tanto sono flexy. E con un laptop si lavora ovunque. Le madri intanto stanno in ufficio. Ad impegnarsi e logorarsi di sfinimento e nostalgia. A macinare traguardi, senza neanche riuscire a goderseli. Il marketing ormai gli preferisce i padri. Niente è più utile al mercato under 12 di un ex maschio alfa votato alla causa. Ai vecchi e ai nuovi, grazie di tutto, e buona Festa del papà.