Sarà che la moda, come la bellezza, è negli occhi di chi guarda, ma le ultime passerelle milanesi mi sono sembrate la celebrazione della donna ai tempi del Time's Up. Hanno sfilato abiti che disegnano una femminilità grintosa, assertiva, molto fascinosa ma per niente ammiccante:le spalle squadrate di Alberta Ferretti, le gonne-plaid di Max Mara, le giacche dal taglio maschile abbinate a vestiti soavi e stivali texani di Fendi (nella foto sopra, la sfilata), i colori fluo anti-aggressione di Prada, ma anche le pencil skirt su pantaloni skinny e l'animalier visto un po' ovunque non hanno niente di provocante - malgrado gli spacchi e le trasparenze - ma neppure di aggressivo. Non sono le donne in giacca over e stiletto assassino degli anni 80, pronte a mangiarsi il mondo, queste del nuovo millennio. Perché non hanno niente da dimostrare: il mondo è già loro. Si tratta solo di farlo capire agli altri.

E per riuscirci è giusto alzare il volume (e i volumi, certo). Perché non basta sapere di meritare spazi e rispetto, bisogna anche pretenderlo, uscendo da quelle logiche che ci vogliono sì tanto brave, purché al loro posto. Gli ultimi dati Istat ci dicono che quasi 9 milioni di italiane hanno subíto qualche forma di molestia nel corso della vita. Spesso, senza che nessuno sappia. Vietato parlarne. E non c'entra l'amore o il suo contraltare, la schiavitù emotiva e patologica che spesso intossica le relazioni e spinge a coprire il carnefice. Molto accade, ogni giorno, sul tram, per strada, in chat, dentro un locale. E tanto tanto nel mondo del lavoro. Dove non esistono attenuanti. Non c'è la gelosia, non c'è la smania di possesso, è puro abuso di potere. Ti molesto perché posso. Ti molesto perché tu, il tuo posto, la tua carriera, dipendono da me.

Anche chi ha il coraggio di opporsi a un'avance si vergogna a raccontarlo, come se fosse "sporca" comunque

Se ci stai, bene, sennò sii pronta a pagarne le conseguenze. Ecco perché si resta zitte. La vergogna più che la paura toglie la voce. Perché anche chi ha il coraggio di dire "no", poi ha un certo pudore a raccontarlo. Non ci si sente eroine a sottrarsi a un'avance, ma sporche comunque. Come se il solo fatto di aver risvegliato un certo istinto predatorio ci renda complici. Questo ho capito leggendo le storie raccolte nella nostra inchiesta sulle molestie sul lavoro pubblicata sul n. 8 di Gioia!. Dall'operaia alla manager, nessuna è immune. Ma quanto più fragile è la propria posizione - un contratto a termine, un ruolo subalterno - tanto più si è ricattabili. Purtroppo accettare questo sistema è una norma non scritta tollerata a tutti i livelli. Ci sono colleghe che hanno confessato solo oggi di essere state oggetto di approcci inopportuni a inizio carriera, e di aver perso occasioni importanti solo per essersi sottratte. Perché non dirlo prima? Perché era così che andava, da sempre, e metterci la faccia non avrebbe cambiato niente.

E invece cambiare si deve. Il tornado seguito al caso Weinstein è servito a questo: a dare voce al non detto e a pretenderla, questa rivoluzione. Sarà un cambiamento lento, ma ci siamo dentro. E parlarne aiuta. Lo abbiamo fatto con l'intervista a Cristiana Capotondi, firmataria con altre 123 attrici del manifesto Dissenso comune, risposta italiana al movimento #MeToo, e protagonista del film Nome di donna, che proprio di molestie sul lavoro parla. Quando l'ho visto in anteprima, la cosa che più mi ha colpito è stata la solitudine della protagonista nel denunciare l'abuso subíto. La sceneggiatrice, Cristiana Mainardi, mi ha spiegato che si è attenuta ai dati e alla realtà dei fatti. Solo lo 0,7 per cento delle vittime ricorre alle vie legali, facendo spesso una battaglia in solitaria non solo contro l'autore dell'abuso, ma anche contro il muro di omertà alzato dalle altre vittime. Per sgretolare questo muro serve l'impegno di tutti. Uomini e donne. Questa non è una guerra tra i sessi, è una "campagna pacifica" di emancipazione collettiva. Vorrei consegnare alle mie figlie, a tutte le ragazze di oggi e di domani, un mondo in cui possano vivere senza paura, uscendo, flirtando, ambendo a realizzarsi come vogliono, vestirsi come vogliono, amare come vogliono, senza pagare lo scotto di essere femmine. Essendo felici di esserlo. Perché, come ha detto Cristiana Capotondi, le donne "sono una meraviglia". Non devono essere punite per questo.

Scrivete a Maria Elena Viola, direttore di Gioia!: direttoregioia@hearst.it