In principio fu un articolo sul New York Times. Circostanziava l'inclinazione di Harvey Weinstein, il più influente produttore di Hollywood – fondatore di Miramax, e poi della Weinstein Co. – a molestare le attrici e poi pagarle, per farle stare zitte. Peraltro poco: quando contro hai un omone con diritto di vita o di morte sulla tua reputazione, il denaro è pegno del suo potere, più che la garanzia del tuo silenzio. Weinstein di quel potere ha assunto la forma: «Un uomo straordinariamente affascinante e tuttavia un pozzo torbido di insicurezze, in cui l'amore e l'odio per se stesso combattono come due demoni identici per forza, acume e determinazione», dice Peter Biskind in un libro che si intitola Down and Dirty Pictures. Weinstein è anche un'altra cosa: un maschio ripugnante. Ma abita lo stesso universo di Woody Allen e di Roman Polanski, di Bill Cosby e di Donald Trump: era fin qui inaudito che la ripugnanza avesse conseguenze.

Non più un intoccabile di Hollywood, il molestatore delle dive Harvey Weinstein ci obbliga a una riflessione in più: oltre all'indignazione e alla solidarietà, dobbiamo essere capaci di raffinare l'analisi ed emanciparci da ruolo di vittime perfette.pinterest
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Nel frettoloso messaggio di scuse a seguire – è la cultura che mi ha disegnato così – Weinstein annunciava sospensioni riabilitative e querele parziali; una strategia difensiva composta da: un terzo contrizione, un terzo smentita, un terzo buona volontà. Le reazioni montavano pianissimo. Gli attori, perlopiù zitti. Le attrici risolutamente indignate, ma mica potevano immaginare. Tutti in attesa di valutare la traiettoria del secondo attacco. È arrivato: frontale. Sul New Yorker Ronan Farrow ha riportato ulteriori minuziose testimonianze degli abusi perpetrati da Weinstein a vario titolo. Hillary Clinton ne è rimasta sconvolta. Gli Obama – che da Weinstein avevano mandato Malia a fare uno stage – orribilmente disgustati. E il modello di propagazione del format «Harvey Weinstein ha molestato anche me» è diventato quello di un'apocalisse zombie. O di un regolamento di conti: la Weinstein Co. lo ha licenziato; l'Academy, espulso.

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La moglie Georgina Chapman – mai particolarmente insospettita dal successo della sua linea di vestiti (brutti) tra le protagoniste dei film prodotti dal marito – lo ha lasciato: «Mi si spezza il cuore al pensiero delle donne ferite da questa condotta imperdonabile». Povera stella, mica poteva immaginare. Eppure la dinamica degli incontri era collaudata, quasi compulsiva: le prede, spesso con l'inganno, venivano lasciate sole in balìa di Harvey, spesso in accappatoio. Le conseguenze – del rifiuto, ma forse pure del consenso: nessuna ce l'ha raccontato – multiformi: ci sono quelle che sono diventate Gwyneth Paltrow, o Angelina Jolie (certo, partivano avvantaggiate). Ci sono quelle che sono rimaste Asia Argento, o Mira Sorvino. E ci sono quelle che sono tornate niente.

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Anche le vittime non sono tutte uguali. C'è differenza tra massaggio e pompino; c'è differenza tra stupro, molestia e storia sbagliata (lo ha scritto Guia Soncini nel numero scorso). E adesso che l'onda lunga dell'apocalisse Weinstein lambisce altri intoccabili – Woody Allen comprensibilmente teme possa scatenarsi una «caccia alle streghe» – è necessario distinguere. Se per disinnescare la complicità dei maschi – e di chi mica poteva immaginare – non possiamo che raccontare la verità, le donne siamo noi. È inutile fingere di essere tutte, sempre, violate nello stesso modo. È questa incapacità di raffinare l'analisi – oltre l'indignazione, oltre la solidarietà – che ci rende le vittime perfette. Quelle che a un certo punto si mettono a strillare tutte insieme, e nessuno capisce più cosa è successo.