Sabato di fine estate. Ristorante sul mare. I piccoli sono immersi nei loro iPad, salvifico strumento che ha risolto uno dei più gravi problemi della nazione (i bambini rumorosi nei ristoranti); i grandi parlano di cose da anziani: libri. Ci si sta interrogando sul momento in cui gli editorialisti hanno capito che parlare di figli era l'unico modo di vendere libri, e hanno iniziato a infilare la prole nei loro tomi. Si conviene che il primo sia stato Michele Serra, e che gli emuli siano molto più scarsi, ma che comunque si sia creata una nuova categoria: maschi sessantenni i cui libri ci svelano che il maschio sessantenne abituato a ritenere la legge elettorale un tema di conversazione a un certo punto s'accorge che là fuori c'è un mondo, e se ne accorge perché gli tocca relazionarsi a degli adolescenti.

Esaurito il tema, la madre indica sconsolata i figli immersi negli iPad e, senza traccia d'ironia, sospira: «Noi alla loro età leggevamo dei libri». Siccome in me c'è un po' di Rhett Butler – nel senso di: «Ho un debole per le cause perse, ma solo quando sono perse veramente» – m'impegno a cercare di convincerla. C'è stato un tempo in cui i romanzi erano considerati un passatempo di quart'ordine, le ricordo. C'è stato un tempo in cui la tv era il mezzo che ci avrebbe resi tutti più stupidi, la fine dell'immaginazione cui ci aveva abituati la radio. C'è stato un tempo in cui le cuffiette del walkman annunciavano l'alienazione. Insomma: a tutti i genitori i passatempi dei figli sembrano la fine della civiltà.

Queste cose le sa, e tuttavia scuote la testa: lei vuole che i figli leggano quei bei romanzoni che intrattenevano le nostre estati, quando nei posti di mare la tv prendeva sì e no RaiUno e non potevamo guardare il Live Aid. La capisco, è il ciclo della vita: mio nonno era indignato che mio padre fosse così sovversivo da ascoltare i Beatles; mio padre mi riempiva di botte ogni volta che mi trovava a sfogliare un fotoromanzo, secondo lui «roba da cameriere» (il fatto di non avere il suo stesso reddito non ha mai impedito a mio padre di sentirsi Gianni Agnelli).

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Quel che ancora non sapevamo, quel sabato, era che i due temi si sarebbero uniti: l'ultimo libro d'un editorialista con figli parla del fatto che i suoi figli stanno sempre al cellulare. Vedendolo in libreria m'è subito venuto in mente mio padre. Non per i fotoromanzi; per quella volta che, in Sudafrica, mi rimproverò perché leggevo un libro nel tragitto tra l'aeroporto e l'albergo: «Sei l'unica al mondo che arriva in un posto nuovo e non guarda fuori dal finestrino» (qualunque cosa faccia un figlio in qualunque epoca, per i genitori è sempre l'unico al mondo a farla). Chissà che romanzo stavo leggendo. Chissà come sarei stata più felice se, invece che gli Anni 80, fossero stati gli Anni 10, e al posto di Tolstoj ci fosse stato un compagno di scuola cui whatsappare i miei reportage di viaggio. Non è vero che i giovani sono più fessi di noi. I figli che stanno sempre al cellulare firmano il libro assieme a papà, incassando quindi una percentuale dei diritti d'autore (che immagino cospicui; i lettori con figli lo compreranno per consolarsi: anche quelli degli altri stanno sempre al telefono). È un'evidente evoluzione della specie: allo sdraiato 
di Michele Serra mica era venuto in mente.