Avevo circa vent'anni ed eravamo da qualche parte al largo di Palmarola. Erano più o meno le sette di sera, e tutti erano sul ponte a godersi il tramonto. Il tizio con cui allora m'accompagnavo scese sotto coperta per prendere da bere per i nostri amici, e mi trovò che cenavo. Mi cazziò neanche fosse stato mio padre o la mia istitutrice: ma sei una selvaggia, ma ti pare che ti metti a mangiare senza aspettare, ma non ti si può portare in giro. Fu allora che capii che avrei passato la maggior parte della mia vita da sola: io voglio mangiare quando ho fame. La data in cui le serie tv sono diventate un problema di coppia, nei miei libri di storia, è il marzo 2013, quando la miglior commentatrice di costume americana, Maureen O'Connor, scrisse la straziante cronaca di come aveva tradito il fidanzato mentre lui dormiva ignaro a pochi metri, nel loro letto; a un certo punto si era alzato per andare in bagno, e le era passato davanti chiedendole «Mica starai guardando House of cards?»; lei gli aveva risposto di no, 
e aveva sfruttato l'insonnia per vedere altre cinque puntate e finire la stagione, mentre il tapino pensava che sul divano, con quel computer in grembo, lei stesse lavorando.

Siccome sono una di voi, e so che i giornali ci raccontano un sacco di scemenze («il metabolismo rallenta dopo i 40», ci giurano per consolarci di quei tre chili sulle cosce che proprio non se ne vanno; poi un bel giorno, sfogliando, vedi l'ottantenne Silvio Berlusconi che di chili ne avrà persi 30, e noi qui che brighiamo invano per la prova costume del 2018), al dovere della visione di coppia non avevo creduto. Avevo letto l'articolo divertendomi, ma pensando alla solita americanata. Anche quando tutti hanno iniziato a copiarlo (non conosco praticamente una persona che di mestiere scriva, e che abbia una vita matrimoniale, che negli ultimi quattro anni non abbia scritto un articolo sul drammatico dovere di guardare in coppia le serie), ho pensato che fosse come "se vai al ristorante da sola ti fanno sentire strana": un genere letterario fortunatissimo benché mendace; mangio al ristorante da sola duecento volte all'anno, e nessuno mi fa mai sentire strana (a meno che non mi ci senta già di mio, e di solito per ragioni che hanno poco a che fare con la richiesta di un tavolo per una).

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Poi, un anno e mezzo dopo, è iniziato The affair, e con esso il mio dramma. Giacché sono insonne, e la mattina non devo portare i bambini a scuola, e mi sembrava la cosa più bella mai vista in tv, lo guardavo in contemporanea con l'America, alle 4 di notte. E a quel punto iniziavo il conto alla rovescia per commentarlo con le mie amiche, che (donne di buongusto) ne erano patite quanto me. Solo che nessuna di loro, donne di scarso buonsenso, lo vedeva prima di sera: «Se non lo aspetto s'offende». La particella pronominale stava per il marito. Al quale, come a tutti gli uomini, faceva schifo The affair. Epperò pare che la visione congiunta d'una cosa che interessa a uno solo dei due sia parte del contratto matrimoniale. Le mie amiche s'assopiscono con Narcos, i loro mariti s'annoiano con Fleabag, ma divani separati no, non si può: cominci con Netflix e chissà come finisci. (Comunque poi quello di quando avevo vent'anni l'hanno arrestato. Chissà se in carcere osserva le buone maniere a tavola).