Stefano e Sebastian hanno 10 e 14 anni. Sono biondi, belli, quasi sempre abbronzati, come tutti quelli che abitano in città di mare dove sembra sempre vacanza e si vive all'aperto, si gira in skateboard, si fa tanto sport, il sabato ci si vede per un barbecue e la domenica in spiaggia. Sono nati a Miami. Sono americani. E hanno il tipico aspetto wasp delle campagne di Polo Ralph Lauren. Eppure, non una sola goccia del loro sangue ha origini yankee. Papà milanese, mamma umbra, sono 100% italiani. Italiani d'America. Divisi tra due culture, ma senza nessuna crisi di identità. Perché nel loro Paese esiste la birthright, ovvero la cittadinanza per nascita, riconosciuta di default a chiunque venga al mondo, anche da genitori stranieri, sul suolo americano o in uno dei suoi territori, da Puerto Rico alle Isole Vergini. È un diritto approvato dal 14° emendamento della Costituzione dal 1868, ed è stato addirittura esteso nel 1988 a chi nasce in una nave straniera che naviga nel mare territoriale statunitense e a chi viene alla luce su un aereo che sta sorvolando il territorio americano.

In Italia siamo abituati a complicare le cose facili

Insomma, la regola dello ius soli, che da noi sembra fantascienza, al di là dell'oceano vale per i bambini di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le condizioni sociali, anche figli di genitori che erano clandestini al momento della nascita. Pazzesco, eh? No, ovvio. È che in Italia siamo talmente abituati a complicare le cose facili, che persino le ovvietà ci sembrano robe strampalate. Mentre Sebastian e Stefano, miei adorati nipoti, rivendicano la loro autorevolezza in materia di marshmallow alla brace e pizza napoletana, misurando sul cibo la comprovata italoamericanità, i loro coetanei figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia tra mozzarelle e kebab, ancora non sanno che ne sarà di loro, piante senza radici in questa terra di mezzo poco annaffiata dal senso civico, o almeno, da sano buonsenso. Perché i politici non si decidono.

È ora di avere una legge anche da noi

La legge sullo ius soli, che pure da noi è un accrocchio tiepido di integrazione edulcorata, resta incagliata al Senato, tra insulti, ostruzionismi e slogan neofascisti. Come se Ranja, Sofia, Firas, Nuridin, bambini cresciuti col Natale e il Ramadan, avessero tempo da perdere coi giochi di potere. Loro che la vita la vivono ora, mica domani o dopo, e che il futuro vorrebbero averlo nelle loro mani, non starlo a chiedere come se fosse un favore. Invece gli tocca aspettare i 18 anni per maturare diritti che altrove sono scontati, e avere una famiglia che abbia soggiornato a lungo, legalmente e in via continuativa sul territorio nazionale, con reddito minimo e alloggio idoneo e corso formativo per più di cinque anni e titolo di studio. E poi? Camminare su una palla lanciando birilli come una foca ammaestrata potrebbe essere cosa gradita.

Un Paese magnifico, anche per merito dei nuovi italiani

L'Italia è il Paese della burocrazia e delle lungaggini, delle consultazioni, delle alleanze usa e getta, della democrazia come pretesto dell'immobilismo. Ma non sarà che basta? Io dico di sì. Perché sono davvero troppe le cose che potrebbero girare e invece gli buttano la sabbia nel motore. A noi di Gioia! le cose lunghe e macchinose non piacciono. A noi piace la velocità. Le cose facili. Le soluzioni. Per questo lo scorso anno ci siamo inventati gli Smart awards. Premi per gente sveglia che non sproloquia, fa. Inventa, innova, crea, si mette in gioco. Ognuno nel suo ambito. I vincitori di quest'anno sono persone di spettacolo, moda, beauty, cultura, impegno sociale, che fanno onore a questo Paese. Un posto magnifico che può diventare grande, anche per merito dei «nuovi» italiani.

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