Sta per compiere dieci anni: tocca trovargli un nome. Nel luglio 2007, con Damages, nacque il tipo di telefilm che teoricamente dovrebbe chiudere subito: la trama non sta in piedi; i cattivi diventano buoni poi tornano cattivi poi però forse avevamo capito male, in un accumulo di colpi di scena di cui sembrano aver perso il filo gli stessi sceneggiatori; e nessuna di noi è in grado di rispondere a chi ci chieda di cosa parli la storia che stiamo guardando. Epperò ne siamo ipnotizzate, per una ragione religiosa: all'interno di queste "pecionate" (espressione romana che sta a significare "opere che non brillano per precisione"), c'è sempre un dio della recitazione. Una divinità per vedere un sopracciglio alzato o un monologo furibondo della quale siamo disposte a sorbirci decine di ore d'implausibilità.

Nel 2007, in Damages, la divina era Glenn Close. Poi c'è stata The newsroom, la cui unica ragion d'essere era la presenza scenica di Jeff Daniels; Le regole del delitto perfetto, che sembrerebbe una produzione Mediaset se non fosse per quella dea di Viola Davis; per non dire di The blacklist: überpecionata, ma poi arriva James Spader e t'incanta. Nel genere "pecionate che ci prendono per incantamento", House of cards è forse il titolo più noto. È al quinto anno e ha esaurito le idee che avesse senso mettere in scena da almeno quattro stagioni; eppure continuiamo a stare davanti alla tv in attesa che Kevin Spacey dica una cattiveria sfondando la quarta parete – espressione tecnica che indica i sublimi momenti in cui ci guarda negli occhi e parla proprio con noi, che pubblico fortunato. Siamo tutte rapite dalla magia d'un attore gigantesco che tiene su una serie insensata con la sola forza delle sue facce sprezzanti.

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Hillary Clinton ha appena riassunto al New York Magazine i risultati elettorali (quelli del mondo reale, non quelli di House of cards) così: «Un maschio incompetente che viene preferito a una donna capace non è un evento storico: è un martedì americano qualunque». Siccome il tema della parità di guadagno tra i sessi si porta molto, e non c'è attrice milionaria che non voglia dirci che è proprio come noi, che dobbiamo litigare perché il capufficio ci consideri quanto il vicino di scrivania (più scarso ma maschio), Robin Wright se n'è approfittata. È un anno che va in giro dicendo che lei, eroica, si è impuntata e si è fatta pagare come Spacey, dato che Claire ha lo stesso peso di Frank. Persino gli sceneggiatori devono averle creduto: nell'House of cards del 2017, la first lady è risoluta e ambiziosa e competente, mica una modella slava solo decorativa, e perciò sfonda anche lei la quarta parete, parla con noi, diventa davvero protagonista.

Nel frattempo, però, Robin ha confessato. No, non guadagna davvero quanto Kevin: lui è produttore, la serie se l'è inventata, ha delle voci in più in busta paga. Confessa ma non ammette l'evidenza: per nessuno spettatore che non abbia battuto la testa, Claire ha lo stesso peso del marito. Sì, i suoi tubini sono favolosi e i tagli di capelli da correre con le foto dal parrucchiere, mentre Frank è sempre conciato come un avvocato dei Parioli con la Smart; ma ci sorbiamo tredici ore di tv per quello pagato meglio, in un raro caso di meritocrazia: all'attrice competente, preferiamo l'attore divino.