Ho passato i miei trent'anni a far sparire le foto dei quindici. Erano poche: noialtre del Novecento abbiamo avuto la fortuna di crescere in un'epoca in cui i rullini fotografici costavano, e a nessuno veniva in mente d'immortalare ogni nostro brufolo. L'altro giorno ho visto un film in cui rapivano la figlia del Presidente degli Stati Uniti, e non si sapeva come fornire una foto attendibile agli investigatori perché dodici ore prima la ragazza s'era tinta e tagliata i capelli. Era un film del 2004, e sembrava dell'Ottocento: quante decine di foto ci facciamo, oggi, nelle prime ore d'un nuovo taglio di capelli? In quanti posti le condividiamo? Quanti amici e sconosciuti le vedono?

Comunque: all'epoca per fortuna non era così, e ho fatto presto a distruggere le poche foto da cui si vedeva che andavo in giro con una felpa con scritta grande e grossa la marca. Ma come si fa, borbottavo scuotendo la testa: come potevo essere così priva di gusto? Alcune amiche crudeli conservano certe mail di quegli anni, all'inizio di questo secolo, in cui liquidavo con una parola sola, scritta tutt'attaccata, qualche povero disgraziato che aveva avuto la pessima idea di invitarmi a cena. Com'era?, chiedevano le amiche speranzose di sistemarmi. «Magliettacollescritte», rispondevo io, certa che quell'unico sospiro bastasse a dettagliare l'impotabilità del soggetto.

Poi è arrivato il 2017. Sto passando i miei quarant'anni a vedere distrutte le certezze dei trenta. Ha cominciato Dior. Dior. Quelli eleganti per antonomasia, quelli delle signore sofisticate, quelli. Tra un voile e una crinolina, ti piazzano in sfilata la magliettacollescritte. Oltretutto la scritta è «We should all be feminists», c'è anche il ricatto del tema importante, come fai a essere contraria, vorrai mica dirmi che sei antifemminista? Iniziarono mesi in cui la magliettacollescritte era ovunque: addosso a Natalie Portman che incintissima comiziava a Washington sui diritti delle donne; addosso a Sarah Paulson che concludeva sulla copertina dell'Hollywood Reporter la stagione in cui, per il ruolo del pubblico ministero nel caso OJ Simpson, aveva preso qualunque premio.

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Poi è arrivata Alberta Ferretti: i maglioni coi giorni, nientemeno. Coi colori squillanti, la scritta grossa. Così simili alle felpe della mia adolescenza che mi veniva da piangere: avevo distrutto gli unici reperti con cui avrei potuto spacciarmi per un'ex ragazzina stilosa. Ora che il fluò con le scritte era tornato, io non avevo prove. Inutile giurare che, trent'anni prima, vestivo come oggi veste Amal Clooney, o Carine Roitfeld: servirebbero le foto di me quindicenne, anch'io coi maglionicollescritte. Foto scattate da gente morta o decrepita, foto dimenticate e finite al rogo: nessuna giuria mi crederebbe.

E infine Versace. Non paghi di avermi, venticinque anni fa, fatto comprare bustini da cortigiana che non si capisce dove avrei dovuto mettere ma se li aveva addosso Cindy Crawford dovevo averli anch'io, quest'anno sfilano i berretticollescritte. Scritte abbinabili a quella Dior: Power, Unified, Equal. Oltretutto c'è il riscaldamento globale: mi toccherà andare in giro con un berretto da sci mentre fuori ci sono 20 gradi, mi verrà la rosolia per sembrare la me stessa quindicenne. Però più grassa, e con le scritte più impegnate.