L'unica volta che ho intervistato Tracey Emin (per Gioia! nel 2010), nella mostra che stava per inaugurare c'era un video in cui giocava con un gatto. All'epoca la signora Emin aveva 46 anni e la sua carriera era già finita, ma io non lo sapevo. Lei forse sì: quando mi disse, a proposito del gatto, «È la mia anima gemella. Mi spiace solo di non saper parlare la sua lingua, vorrei tanto farci conversazione», avrei dovuto capire. Invece la presi per la spiritosaggine d'una zitella col dovere dell'autoironia (se non ridi del tuo essere zitella tu, lo faranno gli altri e sarà peggio).

Le opere più famose Tracey Emin le ha prodotte negli anni Novanta. Everyone I have ever slept with, del '95, era una tenda coi nomi di tutti quelli con cui aveva dormito (non solo gli amanti, anche amici con cui aveva castamente diviso il letto, anche i due feti che aveva abortito). My bed, del '98, era il suo letto sfatto, con le macerie che contornano i letti di noialtre zitelle disordinate, preservativi, cibo, medicine, fogli di giornale: il repertorio d'una canzone di Tiziano Ferro. 

Negli anni Novanta non c'erano i social e la loro assenza era la condizione necessaria perché un'idea («Ehi, forse il mio letto sfatto racconta qualcosa di me e del mondo») diventasse un'opera che viene pagata milioni da un collezionista, invece che una foto su Instagram, uno status spiritoso su Facebook, un trending topic su Twitter («fotografa anche tu #ilmiolettosfatto»). Internet avrà pure ucciso i giornali, ma non è stata salutare neanche per la possibilità di monetizzare l'arte.

Adesso che inaugura la sua prima mostra in Cina, Tracey Emin ha smesso di cercare d'imparare la lingua del gatto. Spiega le nuove opere raccontando il suo nuovo stato civile: l'anno scorso, in Francia, indossando il sudario che aveva avvolto suo padre, ha sposato una pietra. L'unico matrimonio al quale mi sarebbe piaciuto essere invitata. Tracey dice che ora non è più sola: «Su una collina di fronte al mare, c'è una bellissima roccia antica che non mi lascerà mai, sarà sempre lì che mi aspetta». I social network hanno ucciso l'arte concettuale, e anche la salute mentale delle zitelle non è che se la passi benissimo.