Così, mentre il Pd va in pezzi dopo soli dieci anni di vita mai davvero vissuta, la sensazione è che si chiuda un'epoca senza aprirsene un'altra. Chi resta, Matteo Renzi, si libera così di quella zavorra di critiche che mal sopporta. In effetti, adesso, il cosiddetto PdR (Partito di Renzi) sarà più agile nelle decisioni. E il culto del Capo ancora più spinto, nonostante la sconfitta al referendum ne abbia offuscato l'immagine di vincente. Quanto a D'Alema e Bersani, si prevede un partito dal sei-sette per cento che, in tempi di proporzionale, non è da buttare.

Perché nel tramonto della sinistra democratica, resta almeno la certezza che si tornerà ai vecchi, cari scenari della prima repubblica. Dove col 3 per cento eri il re dei veti. Che tristezza. La scissione, il proporzionale puro, il ritorno delle coalizioni frittomisto. Che poi, diciamolo, non è un destino ineluttabile. È invece convenienza, furbizia spicciola di chi, all'alba del trumpismo e, forse, del lepenismo, pensa di blindarsi contro l'uragano populista mettendo tanti pannicelli tiepidi sulle finestre rotte.

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In Italia la tempesta si chiama Grillo. E c'è da giurare che, agli occhi di parecchi elettori di sinistra, attoniti di fronte a una scissione incomprensibile per modalità e responsabilità, votare i cinquestelle assuma a questo punto il valore della punizione, del gesto liberatorio. La sinistra separata perde, questo è certo. Nella rottura del Pd ci sono grandi responsabilità del suo segretario, così innamorato del potere da essere incapace di ascoltare, di concedere. Di unire. Di fare tesoro degli errori politici compiuti. Ma chi se ne va non si rallegri. Il mondo va a destra e le ricette dei nuovi leader sovranisti promettono pane e futuro ai diseredati della globalizzazione. Sono promesse facili, paradisi di carta. Ma a sinistra nessuno ha saputo rispondergli con idee moderne e umiltà. Invece, si spaccano. La storia li castigherà.