Quando non ti parla. Quando lo chiami mille volte al cellulare e non risponde, e magari è già tardi o passa un'ambulanza e pensi il peggio. Quando sta chiuso nella sua stanza e non fa niente, buttato sul letto a non studiare, non leggere, non chiacchierare al telefono con un amico, non dormire neanche. Gli occhi chiusi e le cuffie alle orecchie, precipitato dentro chissà che crepacci. Quando risponde a monosillabi e in modo sempre uguale: che hai fatto a scuola? Niente. E la giornata? «Bene», anche se il tono fa intendere il contrario. Quando non riesci a scambiarci più di due frasi preconfezionate e non c'è verso di cambiare il copione. Quando lo sai che sta male ma non sai come prenderlo. Quando ti urla contro. Quando ti tratta male. Quando si beffa della tua buona fede. Quando vorrebbe chiederti aiuto e non sa come – è una finestra socchiusa dentro ai suoi occhi, che sbatte di colpo l'attimo prima che tu riesca ad aprirla. Quando ti sembra di girare a vuoto. Quando ti metti a piangere e lui ti vede. Quando hai paura di lui. O per lui.

Tante cose sono state scritte sul ragazzo di Lavagna che si è tolto la vita a 16 anni per 10 grammi di hashish. Non ha «retto» la perquisizione delle Fiamme gialle chiamate dalla mamma per salvarlo – ha fatto bene a denunciarlo? Ha fatto male? Chi può dirlo. La disperazione non è razionale e tante tragedie nascono da gesti partiti con buone intenzioni. C'è chi ha preso la palla al balzo per ribadire l'urgenza di una legge che legalizzi l'uso delle droghe, come se il problema fosse davvero la droga, o questo soltanto. Chi ha puntato il dito contro la famiglia che «non c'è abbastanza», contro lo Stato inquisitore che reprime e punisce senza capire le differenze, contro la scuola, gli amici, i social, l'adolescenza.

Nessuno ha colpe e tutti ne hanno un po'. Colpe che ognuno di noi ha senza volere (non sempre, ma spesso), cercando di fare al meglio ciò che fa: il genitore, il figlio adolescente, la forza dell'ordine, il compagno di banco, il prof. Facile fare la spunta degli errori a posteriori. Trovare qualcuno con cui prendersela. Perché ci aiuta a credere che a noi – che mai faremo lo stesso errore – non capiterà. E invece c'è sempre un margine d'imponderabile, un lieve cono d'ombra contro cui non puoi niente, anche se ti sbatti all'inverosimile. Anche se stai in ascolto, anche se cerchi un dialogo, anche se ti rivolgi a uno psicologo perché da sola non ce la puoi fare, anche se «non sei assente» e segui tutte le regole del bravo genitore che gli altri, dopo, sono così bravi a snocciolare.

È che si sbaglia senza sapere e quasi sempre in momenti insospettabili, quando ogni cosa sembrava riparabile. Con buona fede e senza intenzione. Scavando voragini un granello alla volta, alzando muri un mattone dopo l'altro, aprendo distanze che un giorno sarà impossibile guadare. Quando l'allarme arriva, purtroppo è già tardi. 50 euro di fumo sono niente, di sicuro troppo poco per chiudere la vita con un salto giù dal terzo piano. Lasciano troppe domande. E troppe paure irrisolte se tutto finirà in uno sterile rimbalzo di accuse e pareri non richiesti. Se ognuno si prendesse il suo pezzetto di responsabilità, se ci mettesse impegno a fare la sua parte, i buchi neri in cui si perdono i ragazzi, qualsiasi essi siano, sarebbero meno spaventosi. Si sentirebbero meno soli. Ci sentiremmo meno soli.

Maria Elena Viola, direttore di Gioia! Scrivetemi a: direttoregioia@hearst.it