Scopriamo all'improvviso, allarmati dall'appello di 600 professori, che gli italiani non sanno più scrivere. A dire il vero, basta poco per accorgersene. Un giretto sui social, Facebook o Twitter, ci spalanca il girone dell'inferno linguistico nel quale il popolo di Dante è precipitato. Una sagra di accenti sbagliati, apostrofi a capocchia, neologismi surreali. Una caporetto della grammatica. L'allarme somari è stato lanciato da docenti dell'Accademia della Crusca, linguisti, professori di letteratura, storici, giuristi, pedagogisti, scrittori e politologi. Da tutti coloro che si imbattono sempre più spesso in tesi e compiti scritti da universitari che compiono errori da terza elementare.

Gli italiani non sanno più scrivere e neanche parlare. I colloqui con i professori di liceo svelano un paesaggio culturale giovanile da incubo. Spesso gli adolescenti non riescono a esporre con fluidità e correttezza, arroccandosi intorno a quei duecento vocaboli di uso comune che fanno procedere l'interrogazione orale in classe come una vecchia carretta asmatica in salita. Eppure raramente i professori obbligano gli studenti a leggere sistematicamente i classici, oppure ad abbandonare le sintesi scritte compilate a casa con la complicità del copia incolla digitale.

Agli occhi di un padre, quel che manca alla scuola italiana è un incentivo alla lettura e all'esposizione orale, contromisura minima al dilagare dei social e della messaggistica modello WhatsApp, dove il pensiero si condensa in abbreviazioni da neolingua sconosciuta. Scrivere male vuol dire pensare male, quindi agire male. In nome della professionalizzazione della scuola abbiamo tagliato l'italiano, il latino e la filosofia. Trasformato Leopardi e Italo Svevo in simboli del superfluo. Esaltato la cultura dell'agire, del pronto subito. Come se al mondo ci fosse qualche professione dove primeggiano gli analfabeti. Come se potessimo permetterci ancora una classe dirigente che non azzecca più un congiuntivo.